Nel 2023 le vittime di femminicidio sono state oltre cento. Il numero esatto però è sempre difficile da individuare e anche sulle testate giornalistiche appaiono dati discordanti tra loro. Quelli che vengono raccolti, infatti, spesso non hanno criteri univoci ad individuare un femminicidio, benché già dal marzo del 2022 la Commissione statistica delle Nazioni Unite li abbia indicati. In Italia però non vengono raccolti in modo uniforme e quindi avere una fotografia esatta è molto difficile. Ed anche questo è uno dei vulnus irrisolti del nostro Paese.

Certo, la questione numerica non è quella più rilevante; quello che invece è il punto su cui riflettere e che è esploso prepotentemente in tanti articoli e commenti, specialmente dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, è individuare la radice di questo tremendo fenomeno. La parola patriarcato è comparsa fortemente in molti articoli, commenti, analisi, trasmissioni televisive che si sono occupate in modo diffuso di questo femminicidio che per le modalità, la giovane età della vittima, la “normalità” della sua vita, la reazione dei suoi familiari, ha fatto sì che ci fosse una fortissima attenzione mediatica e popolare. Lo dimostrano le manifestazioni del 25 novembre in tutta Italia, così partecipate e con una presenza di donne, uomini e giovani mai prima d’ora scesi in piazza.

Ma non solo, questo femminicidio ha smosso la coscienza di tanti e dico tanti non per usare il linguaggio maschile inclusivo, ma perché sono stati tanti gli uomini che hanno dato risposte diverse, alla ricerca della causa della violenza contro le donne e che si sono interrogati con la consapevolezza che la causa sono loro, sono loro anche se non manifestamente violenti.

Dopo Giulia però sono state ammazzate ancora tante donne, una, incinta, proprio in questi giorni. Certo, non possiamo neanche minimamente pensare che un’inversione di tendenza possa esserci in tempi brevi, ma dobbiamo interrogarci se dopo tante riflessioni, analisi e impegni, siamo sulla strada giusta.

Credo che se la società tutta non riconosce che la causa della violenza è il patriarcato in tutte le sue forme e le manifestazioni, non faremo assolutamente passi avanti. E questo, leggendo tanti commenti, non mi pare scontato. Non mi sembra che da parte di molti uomini, ma anche di molte donne, ci sia la consapevolezza che tutte le discriminazioni che ancora ci colpiscono, tutti gli stereotipi presenti nella nostra cultura siano da porre in stretta correlazione con la violenza di genere.

Per non parlare poi della politica: chi in questo momento ha il potere di decidere le politiche di contrasto e di prevenzione mi sembra vada in una direzione completamente opposta. L’inasprimento delle pene, una politica securitaria, le scarse risorse impegnate, le risibili proposte di fare prevenzione nelle scuole, dedicando qualche ora facoltativa ad un tema così complesso e che avrebbe bisogno invece di tempo, competenze, strumenti molto più incisivi ed infine le poche forze messe a disposizione per formare tutte quelle persone che si devono professionalmente occupare di questo problema (magistratura, forze di polizia, assistenti sociali, personale sanitario, ecc. ecc.) ci dimostrano che la direzione non è quella corretta.

E se oggi siamo qui ancora a parlare di patriarcato come causa dei femminicidi, quando nel 1995 dopo la Conferenza di Pechino le autrici di “Sottosopra” (periodico della Libreria delle Donne di Milano) scrivevano: “E’ diventato chiaro che la fine del patriarcato sta coinvolgendo tutti i Paesi del mondo, un mondo attraversato, quasi di colpo e insieme, da enormi cambiamenti, fra i quali c’è la fine del patriarcato. Vuol dire che è finito o comincia a finire, il controllo del corpo femminile fecondo e dei suoi frutti da parte dell’altro sesso”. Possiamo affermare che la speranza della fine dell’ordine simbolico patriarcale è andata delusa.

Che cosa è successo in questi quasi trent’anni? Perché le aspettative di una società realmente paritaria sono state frustrate e perché l’autodeterminazione e la fine del controllo maschile sul corpo delle donne fanno ancora paura? Perché viviamo in un Paese dove la parità sostanziale si raggiungerà (ma si raggiungerà?) solo fra 132 anni (come ci ammonisce il Global Gender Gap del World Economic Forum). Perché tutto il sistema e la struttura della nostra società sono ancora estremamente maschilisti e misogini. Perché in questi trent’anni non sono mai state attuate politiche serie, anche da governi che a parole promettevano l’empowerment femminile e il gender main streaming, ma che di fatto hanno attuato singole riforme, provvedimenti sporadici e non una rivoluzione strutturale.

E certo non possiamo sperare che ciò avvenga ora, quando tutto il mondo è attraversato da un’ondata conservatrice e integralista che si riflette irrimediabilmente anche sul nostro Paese; quando abbiamo un governo presieduto da una donna che però esige di farsi chiamare al maschile, e che ha varato una manovra punitiva per le donne, e come potrebbe essere diverso, vista la funzione principale che questo esecutivo attribuisce alle donne: quella di essere madri.

Le misure in favore delle donne, in modo del tutto insoddisfacente, sono praticamente solo quelle che servono ad aiutare le madri; misure di riequilibrio, di condivisione del lavoro di cura, di sostegno ai diritti sessuali e riproduttivi sono viste come il fumo negli occhi. Dichiarare che per emergere, per affermarsi, per continuare a tenere il proprio posto di lavoro le donne devono far ricorso alla loro forza di volontà significa non capire che se non si attuano riforme strutturali la parità non sarà mai raggiunta.

E dal punto di vista culturale le cose non vanno affatto meglio se un’avvocata in un processo per stupro si permette di fare alla vittima domande del tipo: “Ma se aveva le gambe piegate, come hanno fatto a toglierle i pantaloni?”. O: “Ci può spiegare come le sono stati tolti gli slip?”. E ancora: “Come mai non ha reagito con un morso durante il rapporto orale?” e se a 47 anni dal processo del Circeo, nulla è cambiato e la cultura misogina e patriarcale entra ancora troppo spesso nelle aule dei Tribunali.

Quindi tutto buio all’orizzonte? Una luce c’è ed è rappresentata da quella marea di giovani nelle piazze del 25 novembre. La speranza è che conquistino la consapevolezza che si debbano difendere tutti i diritti acquisiti, e che nulla è scontato e irreversibile. E che continuare a lottare e a credere nel femminismo è l’unico mezzo per raggiungere una vera libertà.

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