di Simone Lauria *

Nella discussione sull’opportunità di introdurre un salario minimo per legge alcuni, in modo strumentale, sosterrebbero che una misura in questo senso sarebbe in contrasto con l’autonomia collettiva che, in ambito giuslavoristico, costituisce l’autorità salariale; la Direttiva UE del 14.9.2022, con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita e di lavoro nell’ambito dell’Unione mediante l’adeguatezza dei salari minimi, indica due strade: l’introduzione di un salario minimo legale e una contrattazione collettiva ben strutturata, che garantisca una copertura delle lavoratrici e lavoratori almeno pari all’80% – in mancanza della quale gli Stati dovranno individuare un piano d’azione per favorirne la diffusione.

Qual è la situazione in Italia? Secondo l’ultima relazione del Cnel, il tasso di copertura in Italia soddisferebbe ampiamente il parametro indicato dall’Unione, avvicinandosi al 100%; i 211 contratti collettivi nazionali sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil coprono circa il 96,5% dei lavoratori.

Eppure, nonostante il tasso di copertura più che soddisfacente, in molti sostengono l’opportunità di introdurre un salario minimo per legge; e non a torto, aggiungo io! Intanto perché un sistema di contrattazione collettiva solido può senz’altro coesistere con previsioni normative sul salario minimo; in questo caso il salario minimo costituirebbe un limite del quale anche le dinamiche negoziali, spesso fortemente condizionate dal fenomeno del ritardo nei rinnovi dei contratti e da quello del dumping contrattuale, dovrebbero tener conto. Del resto, l’art. 36 della Costituzione stabilisce che la retribuzione delle lavoratrici e dei lavoratori debba essere proporzionata alla quantità e alla qualità del loro lavoro e comunque sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa. In buona sostanza, al di là del salario che scaturisce dalle dinamiche negoziali – e dal mercato – il salario minimo legale garantirebbe il riallineamento di quest’ultimo con il salario adeguato all’esistenza dignitosa.

In Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Spagna e Svezia la contrattazione collettiva garantisce un tasso di copertura pari almeno all’80%; e com’è noto, in Belgio, in Francia e in Spagna esiste il salario minimo legale, a dimostrazione che le due “soluzioni” possono coesistere.

In Italia, invece, la discussione è orientata verso un modello nel quale la contrattazione collettiva, garantendo un tasso di copertura di lavoratrici e lavoratori molto elevato, escluderebbe l’opportunità di introdurre un salario minimo legale. Le ragioni per le quali, invece, sarebbe auspicabile una via legislativa a una retribuzione minima, a supporto e non a scapito dell’autonomia collettiva, le ho già esposte sopra. L’attuale maggioranza ha invece ritenuto, in modo proditorio, di affossare la discussione – con l’emendamento che trasforma la proposta di legge sul salario minimo presentata dalle opposizioni in una legge delega al Governo – per proporre formulazioni piuttosto generiche sulla retribuzione equa – anche perché il concetto di giusta retribuzione è già stabilito, come abbiamo visto, dall’art. 36 della nostra Costituzione -, con il rischio di non individuare una soglia che non consenta deroghe.

Ci sono però altre due questioni che si devono affrontare in tema di salari e retribuzioni. La prima è certamente quella del potere d’acquisto dei salari che in Italia costituisce un vero e proprio vulnus: il potere d’acquisto dei salari, negli ultimi trent’anni, non solo non è aumentato ma è addirittura diminuito di quasi il 3% – in ambito Ocse, il nostro è il dato più negativo. L’autonomia collettiva ha dato qualche soluzione efficace, prevedendo meccanismi di adeguamento delle retribuzioni all’inflazione reale, pur dipendendo dall’effettiva dinamica delle relazioni negoziali in quel momento.

La seconda è quella della qualità del lavoro, la cui dimensione economica è certamente importante ma non è l’unica: diversi studi dimostrano l’importanza, per la definizione di lavoro di qualità, delle condizioni e dei contenuti del lavoro. Questione articolata e complessa, per la quale sarebbe necessario un intervento coordinato tra legislatore, con una normativa sul lavoro che contrasti la diffusione della precarietà e che introduca il salario minimo; policy makers, con l’adozione di politiche che favoriscano un ruolo attivo dello Stato in economia, soprattutto nel campo infrastrutturale e della ricerca al fine di favorire gli investimenti in innovazione tecnologica delle imprese; e autonomia collettiva, sostenuta da una legge sulla rappresentanza, a contrasto del fenomeno del dumping contrattuale.

*Ufficio Studi Camera del Lavoro Cgil di Milano

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