Fino a quando durerà il macabro balletto dei soci su ciò che resta dell’ex Ilva ormai non saprebbero dirlo neanche gli aruspici, ci fossero ancora. Di fumata nera in fumata nera, l’accordo tra Invitalia e ArcelorMittal per salvare la più grande acciaieria del Paese dalla crisi di liquidità continua a essere lontano mentre si avvicina il momento in cui il siderurgico di Taranto rischia di ritrovarsi senza una fornitura di gas. La strategia del governo Meloni per garantire la continuità aziendale – impegno preso da ben quattro ministri e il sottosegretario Alfredo Mantovano davanti ai sindacati – resta ignota pur essendo ormai dietro l’angolo la prima data cerchiata in rosso sul calendario, il 10 gennaio, come limite per non inguaiare ancor di più l’impianto.
Una situazione disperata resa grottesca dal fatto che il governo ha le mani dentro Acciaierie d’Italia, la società che gestisce il siderurgico, attraverso Invitalia, che ne detiene il 38% ed è controllata dal ministero dell’Economia. Lo Stato insomma sta lasciando andare a sbattere una delle fabbriche dalla quale, un tempo, dipendeva – e in parte ancora è così – la filiera dell’acciaio italiano. Da oltre un mese, ormai, Mittal, che ha il 62% di Acciaierie d’Italia, blocca la ricapitalizzazione della società che necessiterebbe di 1,3 miliardi di euro per lasciarsi l’impasse alle spalle. Nell’immediato servono 320 milioni di euro, mentre un altro miliardo è ritenuto fondamentale per comprare gli asset da Ilva in as e a quel punto avere delle garanzie da portare alle banche per tornare ad avere accesso al credito.
Il colosso franco-indiano dell’acciaio ha però fatto capire che non intende versare altro denaro nelle casse di Acciaierie d’Italia, anzi accampa pretese di crediti per 100 milioni nei confronti di Invitalia. Ha anche proposto un suo piano per salvare l’azienda architettato in maniera tale da tenersi le mani libere per almeno altri tre mesi, quando ormai potrebbe essere troppo tardi per l’ex Ilva. Il governo però non ha mai dato il via libera al piano B, quello caldeggiato dal ministro Adolfo Urso ormai dalla scorsa estate: convertire il prestito obbligazionario da 680 milioni di euro già versato in primavera e prendersi la maggioranza di Acciaierie d’Italia, liquidando Mittal. Dentro l’esecutivo questa linea è invisa al ministro Raffaele Fitto ed esistono dei rischi legali, oltre alla possibilità che Mittal continui a esprimere il management pur scendendo in minoranza.
È il risultato finale, intricato e incerto, di una vicenda che si trascina da ormai dodici anni, decreto dopo decreto, intesa dopo intesa che smentiva la precedente, senza che alcun governo abbia mai trovato un modo per rilanciare davvero l’acciaieria. Solo promesse, auspici, certezze che si sono sciolte di fronte a piani con fondamenta d’argilla, privati capricciosi o, peggio, speculatori e contratti blindati solo in apparenza. Un groviglio in cui la politica ha buon gioco da anni nell’accusare predecessori e successori, rimpallandosi la responsabilità della crisi infinita. E allora è quasi scontato cosa dirà venerdì il governo nel nuovo incontro con i sindacati metalmeccanici: un’altra promessa, un nuovo piano abbozzato, l’ennesimo “stiamo lavorando”. È tutto già scritto.
Tant’è che dopo il fallimento del Cda convocato giovedì, Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia della Fiom, ha definito quello del governo un “atteggiamento di retroguardia”, inaccettabile quando ci sono “di mezzo le vite di migliaia di persone” avvisando che “senza risposte valuteremo azioni sindacali e legali”. Mentre Rocco Palombella, leader della Uilm, si chiede “quale scusa inventeranno i ministri?” e chiarisce che la trattativa è “completamente in mano ad ArcelorMittal”. Il Consiglio di amministrazione, accusa, “non assume decisioni perché il governo non assume decisioni e la multinazionale continua a tenerci inchiodati a questa situazione drammatica”.
Così il governo si prepara a varare la mossa della disperazione, perché durante i primi giorni di gennaio toccherà proprio all’esecutivo mettere allo stesso tavolo ArcelorMittal e Invitalia. Lo stallo alla messicana dei due azionisti arriverà a Palazzo Chigi, dove i ministri competenti sul dossier (oltre a Urso e Fitto ci sono di mezzo anche Giorgetti e Calderone) ora si dicono certi di riuscire a sbrogliare la matassa. Se così sarà, verrà riconvocato il consiglio di amministrazione e quindi una nuova assemblea dei soci. Altrimenti l’ex Ilva continuerà a scivolare lentamente verso un nuovo commissariamento. Un altro giro di giostra che rischia di rimpicciolirne il perimetro produttivo e occupazionale riversando un altro po’ di guai addosso a Taranto, la città vittima due volte. Prima sacrificata nel nome della produzione e ora spedita in un limbo dall’incapacità di visione di un’intera era della classe dirigente del Paese.