C’è una storia dell’integrazione europea scritta prima che Jacques Delors divenisse presidente della Commissione europea: una storia fatta di progressi, ma anche di battute d’arresto, di crisi e di stasi, come i cinque anni dal 1979 al 1984, in cui l’allora Comunità economica (Cee) rimase impastoiata nel ‘problema britannico’, cioè il negoziato sui soldi da restituire alla Gran Bretagna, il cui contributo al bilancio era giudicato troppo oneroso da Margaret Thatcher, l’allora premier.

E c’è una storia dell’integrazione europea scritta dopo che Jacques Delors divenne presidente della Commissione europea. Al Vertice di Fontainebleau, nel giugno del 1984, l’intesa fra il presidente francese Francois Mitterrand e il cancelliere tedesco Helmut Kohl aveva definitivamente chiuso, con l’avallo della Thatcher, l’annoso ‘problema britannico’.

Mitterrand disse che le scorie del passato erano state spazzate via dall’uscio della Cee. L’accordo prevedeva un avvicendamento alla guida della Commissione: via l’evanescente lussemburghese Gaston Thorn, a fine mandato; dentro Delors, il ministro delle Finanze francese. Avrebbe guidato, ricorda oggi uno dei suoi successori, Romano Prodi, una “stagione della costruzione europea”; ed Emma Bonino gli riconosce il merito “di avere risvegliato la coscienza europea”.

Fu un decennio, dal 1985 al 1995, di progressi fulminei, tenuto conto dei processi di decisione lenti e farraginosi europei: il completamento del mercato unico, lanciato al Vertice di Milano del 1985, nel Castello Visconteo, e la concretizzazione della libertà di circolazione delle persone, con il patto di Schengen; due allargamenti, uno per ancorare alla democrazia Spagna e Portogallo, dopo decenni di dittature di destra, e uno per portare dentro Svezia, Finlandia e Austria, democrazie mature ed economie solide; la gestione della riunificazione tedesca, dopo la caduta del Muro, il crollo del comunismo, lo smembramento dell’Urss; l’accordo, al vertice di Maastricht del dicembre 1991, sulla nascita dell’Unione europea, che sarà cosa fatta in meno di due anni, nel novembre 1993, e sulla nascita dell’euro, che sarà cosa fatta all’inizio del XXI secolo.

Un decennio, dal 1985 al 1995, come l’Europa non ne aveva mai conosciuti di simili prima, forse paragonabile agli Anni Cinquanta, con la dichiarazione di Robert Schuman, la nascita della Ceca, l’aborto della Ced, la nascita della Cee – e come non ne ha più conosciuto di simili dopo. C’erano pietre miliari geopolitiche; e c’era una visione che consentiva l’abbozzo di politiche dell’ambiente, dopo la tragedia di Chernobyl, e di quelle che allora si chiamavano “nuove tecnologie”; e persino di favorire la crescita di generazioni di veri cittadini europei, con il lancio del programma Erasmus.

Il decesso a Parigi, a 98 anni, di Delors, ‘Monsieur Europe’, architetto dell’attuale Unione europea, come un altro francese, Jean Monnet, lo era stato della prima fase dell’integrazione europea, coincide con quello di un altro protagonista europeo, Wolfgang Schaeuble, un ‘falco del rigore’, ex ministro delle Finanze tedesco, scomparso a 81 anni. Schaeuble partecipò ai negoziati che nel 1990 portarono alla riunificazione della Germania e fu figura centrale nella gestione della crisi post 2008, da ministro della cancelliera Angela Merkel e strenuo sostenitore dell’austerità.

Politico scrive della scomparsa di due “giganti dell’Europa” e nota, magari con un pizzico d’ironia, che “leader politici da ogni angolo del Continente si sono affrettati a esprimere le loro condoglianze e i loro ricordi di due figure che hanno davvero inciso sulla storia dell’integrazione, quali che siano le opinioni in merito”: leader che, magari, quotidianamente calpestano l’eredità di Delors, in nome del populismo e del sovranismo.

“Una perdita pesante per la Germania e l’Europa”, ha detto l’attuale presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, rendendo omaggio a Schaeuble, suo collega di partito, che aveva saputo fare fronte a enormi difficoltà personali dopo che un tentativo di assassinio lo aveva lasciato paralizzato e che era divenuto uno dei più potenti e controversi ministri delle Finanze nella storia dell’Unione. Poche ore dopo, von der Leyen esprimeva il suo cordoglio per la morte di Delors: “un visionario” che ha reso “l’Europa più forte”, perché sapeva tradurre la sua visione in programmi concreti.

Chi, come me, ebbe modo di seguirne per anni le conferenze stampa rimaneva sempre ammirato dalla chiarezza cartesiana delle sue esposizioni, strutturate con una gerarchia di enunciati che nulla ha da spartire con la genericità degli slogan dei leader attuali, le cui approssimazioni ideologiche s’accompagnano a conoscenze approssimative e la cui bussola è la ricerca del consenso: l’obiettivo non è fare quel che si ritiene giusto, ma essere in sintonia con quello che la gente vuole sentirsi dire (e magari promettere).

Cosa di cui Delors non si curava: infatti, esaurito il mandato europeo, evitò sempre di imboccare la strada che gli sembrava tracciata, quella della presidenza francese. Nel ’94 deluse le speranze della sinistra rifiutando di candidarsi alle presidenziali del ’95, nonostante fosse il favorito nei sondaggi: una rinuncia annunciata in tv davanti a 13 milioni di spettatori. “Non ho rimpianti”, disse Delors in un’intervista a Le Point nel 2021, che può essere considerata una sorta di testamento politico.

Nato a Parigi nel 1925, cattolico, Delors fu ministro dell’Economia e delle Finanze dal 1981 all’’84, all’inizio del mandato del presidente Mitterrand, primo socialista all’Eliseo nel Secondo Dopoguerra. A Bruxelles fu a capo della Commissione dal 1985 al 1995 per tre mandati consecutivi (caso finora unico).

Ispirata dal sindacalismo intriso di cattolicesimo sociale degli Anni ‘50 e ‘60, la sua attività lo portò ad approdare al Partito socialista. Fondatore del gruppo di discussione e della rivista Citoyens 60, Delors collaborò anche con riviste di estrema sinistra, in un percorso intellettuale che lo portò dal gollismo sociale del premier Jacques Chaban-Delmas al socialismo di Mitterrand. “Sono un socialdemocratico”, disse di sé, sintetizzando in una formula il suo pensiero.

Sposato nel 1948 con Marie Lephaille, che condivideva le sue convinzioni sindacali e religiose, deceduta nel 2020, Delors ebbe due figli: Martine Aubry, nel 1950, e Jean-Paul, nel 1953, stroncato dalla leucemia nel 1982. Ad annunciare la morte del padre è stata proprio la figlia, sindaca socialista di Lille, precisando che si è spento “nella sua casa di Parigi, nel sonno”.

Nel marzo del 2020, Delors era tornato in primo piano invitando i capi di Stato e di governo dell’Ue a mostrare maggiore solidarietà a livello globale, in un momento cruciale per i 27, alla ricerca d’una risposta comune all’impatto sociale ed economico della pandemia di Covid. Lo stimolo di Delors ebbe un’eco nella messa in comune di una fetta di debito per finanziare il Next Generation EU. Con i suoi think-tank, ‘Club Testimone’ e poi ‘Notre Europe’ (divenuto ora ‘Istituto Jacques-Delors’, con Enrico Letta presidente), volle sostenere e rafforzare il federalismo europeo e chiese ai leader più “audacia” di fronte alla Brexit e agli attacchi dei populisti.

Il presidente francese Emmanuel Macron lo ricorda come “uomo di Stato del destino francese”, “artigiano inesauribile della nostra Europa”. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricorda “il modello di un europeismo sensibile e solidale”. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani dice: “Viene a mancare una personalità che ha segnato, sui valori cristiani, il percorso di rafforzamento dell’Europa”. Enrico Letta scrive: “L’Europa moderna perde il suo padre fondatore… Ne piangiamo la scomparsa, ci inchiniamo davanti alla sua forza e autorità morale, porteremo avanti con ancora maggior impegno le sue idee”.

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