Detenuti che denunciano maltrattamenti e poi vengono denunciati per calunnia, altri che dicono di aver preso botte e dopo vengono accusati di aver appiccato il fuoco all’interno della cella. Chi va in infermeria per farsi medicare le ferite e allo staff medico racconta di essersi fatto male da solo o accusa il compagno di cella. E ancora detersivo per piatti spruzzato sui vestiti e sulle lenzuola. Così funzionava il padiglione C del carcere di Torino, quello dedicato ai “sex offender”, i detenuti per reati a sfondo sessuale. Lo spaccato emerge dalle motivazioni della prima sentenza sui pestaggi ai danni dei detenuti, rubricati come torture dalla Procura di Torino.

Un’inchiesta con venticinque indagati, tre dei quali hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato: l’ex direttore dell’istituto Luigi Minervini, l’ex comandante di reparto di Polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza e l’agente Alessandro Apostolico. L’ex numero uno del carcere doveva rispondere di omessa denuncia e favoreggiamento, l’ex capo della penitenziaria del solo favoreggiamento, mentre il giovane agente era accusato di tortura per aver usato “crudeltà” verso un detenuto e avergli inflitto “violenze gravi” che produssero “acute sofferenze fisiche”, si legge nel capo d’imputazione.

Il gup a settembre ha ridimensionato notevolmente gli addebiti e inflitto pene soft a due dei tre imputati: 300 euro di multa all’ex direttore per aver tardato a denunciare gli episodi che gli erano stati segnalati e 9 mesi più 300 euro di multa per abuso di autorità all’agente. Assolto invece l’ex comandante Alberotanza, “perché il fatto non costituisce reato”. Quest’ultimo in particolare era accusato di aver aiutato i sottoposti a insabbiare il caso grazie a un’istruttoria interna che di fatto scagionò il personale penitenziario dalle accuse di pestaggi e violenze.

Soprusi di cui le motivazioni, depositate nei giorni scorsi, danno ampiamente conto: le vittime, scrive il giudice, hanno descritto “un modus operandi ricorrente: una sorta di ‘battesimo’ una volta che il detenuto fa ingresso in carcere, perpetrato da un gruppo di agenti di Polizia penitenziaria (i quali, dall’agire in gruppo, paiono trarre superiorità e forza e la cui identità spesso ritorna nei vari fatti contestati), con modalità simili (insulti e vessazioni continui, schiaffi al volto, calci, pugni alla schiena, sferrati in una stanzetta isolata o durante un percorso obbligato spesso indossando i guanti, pratica utilizzata, evidentemente, per non lasciare tracce evidenti), oltre a perquisizioni arbitrarie e violente e a limitazioni arbitrarie dei diritti dei detenuti (ai quali, ad esempio, non viene fornito il materasso per dormire), tutti posti in essere verso i detenuti per reati a sfondo sessuale, o con vittime minorenni”.

Coloro i quali avrebbero dovuto tutelare i detenuti più a rischio, perché responsabili di reati particolarmente odiosi, si sono attribuiti “una patente di ‘giustizieri morali’ violenti, nella certezza dell’impunità”, prosegue il gup. Nessuna volontà di calunniare gli agenti perciò: le dichiarazioni dei detenuti sono “intrinsecamente credibili” e hanno ottenuto molti riscontri incrociati. Per esempio dal registro degli “infortuni accidentali”, dove c’è scritto che su 166 episodi refertati nel 2018, 75 facevano capo proprio al reparto dei sex offender. A monte, almeno per una decina di quegli episodi, ci sarebbero degli abusi commessi dalle guardie: “Alcuni agenti del blocco C – si legge nella sentenza – utilizzavano quotidianamente modi brutali, quali picchiare i detenuti, dopo averli condotti in una saletta al piano di sotto, eseguire perquisizioni punitive, danneggiare effetti personali, costringere il soggetto a leggere ad alta volte il capo di imputazione per poi deriderlo e insultarlo, ovvero portarlo nei pressi della rotonda del reparto e circondarlo, anche alla presenza dell’ispettore, per intimorirlo e dissuaderlo da eventuali denunce nei loro confronti”.

Un detenuto ha raccontato di essere stato portato in una saletta, fatto rimanere faccia al muro per un’ora e poi picchiato da tre agenti, un altro di non essersi potuto lavare per settimane, altri di essere stati insultati con frasi come “negro di merda” o “pedofilo di merda” e costretti a pronunciare frasi umilianti. Secondo le accuse degli inquirenti, coordinati dal pubblico ministero Francesco Pelosi, il ‘regista’ delle violenze sarebbe l’ex coordinatore di sezione, l’ispettore Maurizio Gebbia, che ha scelto il rito ordinario (il dibattimento è iniziato a luglio). Secondo il giudice, il direttore dell’istituto era perfettamente al corrente della situazione “quantomeno a partire dal 2018, se non prima”, ma sottovalutò le segnalazioni “omettendo di denunciare quanto via via a sua conoscenza”. Tuttavia “non è provata alcuna finalità da parte di Minervini di favorire Gebbia o altri agenti di Polizia Penitenziaria”, semmai la volontà di mantenere “rapporti di equilibrio” con loro. Allo stesso modo, il loro capo Alberotanza ha mostrato soltanto “una vicinanza ai propri sottoposti più che il dolo del reato di favoreggiamento”. Più dure le considerazioni sull’agente semplice: il suo comportamento, si legge, fu “aggressivo e assolutamente arbitrario”, ma non aveva lo scopo di “ledere in maniera esorbitante la dignità della persona”. Piuttosto è emersa la sua “evidente incapacità di valutare i limiti della propria funzione” perché aveva poca esperienza. Per questo (e perché gli episodi contestati risalgono a prima di luglio 2017) è stato condannato per il più lieve reato di abuso di autorità.

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