Sui fratelli Cervi c’è oramai una sterminata letteratura. Certo, si tratta di un evento simbolico anche a causa dell’unicità della vicenda: sette fratelli, tutti i maschi, prima arrestati da un plotone della Guardia Nazionale Repubblicana, in sostanza i fascisti di Salò, poi fucilati per rappresaglia, assieme all’amico fieramente antifascista Quarto Camurri, il 28 dicembre 1943. Esattamente ottant’anni fa.
Ed è un evento simbolico non solo la loro morte, ma anche la loro vita. Erano portatori col padre di una cultura contadina libertaria e insofferente al pregiudizio e all’oscurantismo, frutto di una interessante commistione fra una originaria formazione cattolica e la successiva energia del pensiero marxista e in generale socialista. La famiglia era una comunità coesa e aperta, con le sorelle, le mogli, i figli, il padre Alcide e la madre Genoeffa.
Diversamente dalla grande maggioranza degli altri contadini, non solo sapevano leggere e scrivere, ma costituirono nel loro casale una vera e propria biblioteca clandestina di testi di saggistica, letteratura, scienza e tecnica. Fu grazie a quelle letture che trasformarono il loro campo difficile in una terra feconda, aiutati da un trattore, mezzo di lavoro non frequente in quei tempi e in quei luoghi; un trattore che, assieme al mappamondo, fa parte integrante del mito dei fratelli Cervi.
Erano antifascisti, a cominciare da Aldo, il più autorevole dei fratelli, comunista, come sottolineato dal figlio Adelmo in polemica contro i tentativi di cancellazione e di rimozione persino delle idee di Aldo. La loro abitazione si era di fatto trasformata in un cenacolo permanente di oppositori al regime. Tutto ciò spiega il mito resistenziale dei sette fratelli: l’anticonformismo, il fascino per lo studio, l’attenzione verso la modernità, lo spirito comunitario, la visione internazionalista, l’enormità della loro fucilazione. Un mito la cui eco si coglie nei versi di Quasimodo: “Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore, non per memoria, ma per i giorni che strisciano tardi di storia, rapidi di macchie di sangue”.
80 anni dopo c’è da chiedersi come si può interpretare la loro vicenda e il loro sacrificio al tempo della retorica sull’italianità, sul destino, sulla “Nazione”, quando si torna a pronunciare senza vergogna il motto “Dio, patria e famiglia”, improvvidamente scippato dal fascismo all’incolpevole Mazzini, quando la presidente del Consiglio, normalmente loquace, in un anno di governo non ha mai pronunciato la parola “antifascismo”, quando il presidente del Senato afferma di non averla mai letta sulla Costituzione.
Tira aria – diciamolo – di autoritarismo mettendo assieme i tasselli del puzzle: premierato, autonomia differenziata, decreto anti-rave, decreto Cutro, decreto Caivano, pacchetto sicurezza, abolizione del reddito di cittadinanza, contrasto al salario minimo, attacco al diritto di sciopero, cariche della polizia e persino identificazione di chi si permette di gridare “Viva l’Italia antifascista!”.
Ebbene, proprio oggi, in questo tempo di guerre e di autoritarismi, ci serve più che mai l’apparato biografico di Aldo, dei fratelli, dei genitori. Ci serve il loro andare in direzione ostinata e contraria ad ogni oscurantismo, la loro attenzione alla modernità, la passione per la lettura e per la cultura, il loro essere e fare comunità. C’è in quelle biografie un’idea di libertà, eguaglianza e pace e una pratica di sfida aperta al potere fascista. Ci servono, simbolicamente, i libri, il trattore, il mappamondo, per sfuggire alla trappola della banalizzazione della realtà, per riconoscerne la complessità, per sfuggire alla logica binaria dell’amico/nemico, per fondare una visione del mondo e un possibile orizzonte di cambiamento che metta al centro l’umanità, per mantenere irremovibile il legame fra libertà ed eguaglianza, per costruire una moderna cultura antifascista alimentata dal testo costituzionale e dalle sue origini ideali, e cioè dalla Resistenza.
C’è sempre un’idea di futuro nella tragedia dei Cervi, persino nelle note parole di Alcide: “dopo un raccolto ne viene un altro”. E mi pare che una delle ragioni del mito sia proprio questa: nulla rimane uguale, tutto cambia, e non esiste nessun destino prescritto, nessun fatalismo, persino davanti ad un sacrificio supremo, come la fucilazione di sette fratelli. Dipende dalle persone in carne ed ossa, dalle donne e dagli uomini viventi. Se dopo ogni notte sorge l’alba, se dopo ogni risacca ritorna l’onda, allora dopo ogni resistenza ci sarà una liberazione.