Secondo il calendario lunare, il prossimo 10 febbraio comincia l’anno del Drago, simbolo di forza, fortuna e successo. Eppure, sebbene sotto i migliori auspici, il 2024 non si preannuncia un anno facilissimo per la Cina. Ad ammetterlo è il presidente cinese Xi Jinping in persona. La Cina si trova ad affrontare una “situazione interna e internazionale complessa”, ha dichiarato il leader durante un recente meeting del partito. Non è la prima volta che – sovrastato dalla grancassa della propaganda – l’establishment comunista esprime preoccupazione per il futuro. Persino Xi, promotore del “sogno cinese”, ha messo in guardia dagli “eterni rischi finanziari ed economici”. D’altronde a un anno dalla rimozione delle rigidissime misure anti-Covid, la crescita stenta ancora a ripartire: intimoriti da tre anni di lockdown e senza certezze sul futuro, i consumatori cinesi continuano a risparmiare invece che spendere. Molte aziende straniere hanno smesso di investire. E l’export – un tempo traino della locomotiva cinese – sconta il calo della domanda proveniente da Occidente. Intanto, i governi locali contano i debiti. Con molte amministrazioni in rosso, puntare sugli investimenti infrastrutturali non sembra più un’opzione praticabile, soprattutto dopo la catena di default tra i vari sviluppatori immobiliari.

Che fare? Nei palazzi del potere si è tornati a discutere di riforme. Xi le aveva annunciate nel 2013 all’inizio del primo mandato, ma poi ha prevalso la linea dell’accentramento. Così anziché dare maggiore spazio al mercato, è aumentato il controllo dello stato sulle aziende private. Qualche novità in merito potrebbe emergere all’inizio del prossimo anno, se – come pare – si dovesse tenere l’atteso terzo plenum del partito. Va detto che lo spazio di manovra strettissimo lascia poco spazio all’ottimismo. Tanto per avere un’idea, secondo gli analisti consultati dal Nikkei Asia Review, il prossimo anno l’espansione del Pil cinese rallenterà al 4,6% rispetto al 5,2% registrato nei primi nove mesi del 2023. Le sfide interne non sono solo di natura economica. “Quattro forme di decadenza” (formalismo, burocrazia, edonismo e stravaganza) continuano ad affliggere il partito-stato, mentre Xi ha avvertito che “tempeste pericolose” minacciano la sicurezza nazionale. Le clamorose rimozioni dei ministri degli Esteri e della Difesa Qin Gang e Li Shangfu restano ancora senza spiegazione. Ma, secondo fonti di Asia Sentinel – sarebbero almeno 70 le persone arrestate nell’ambito di uno scandalo che ha travolto le forze missilistiche cinesi. Esattamente il reparto dell’esercito su cui Pechino dovrà fare maggiore affidamento nel caso di un’invasione di Taiwan.

Proprio l’isola oltre lo Stretto rappresenta uno dei dossier più spinosi del 2024. Il 13 gennaio a Taipei si terranno le presidenziali e – stando agli attuali sondaggi – verosimilmente Tsai Ing-wen passerà il testimone all’attuale vicepresidente: il collega del Democratic Progressive Party, William Lai. Considerate le vecchie velleità indipendentiste, una vittoria di Lai nella migliore delle ipotesi congelerà le tensioni tra le “due Cine” allo stato attuale. Molto dipenderà però anche dalle mosse degli Stati Uniti, interessati a loro volta da una delicata tornata elettorale. Sotto l’amministrazione Biden, Taipei è diventata uno dei pilastri della strategia americana di contenimento sferrata contro Pechino nell’Indo-pacifico. Un nuovo mandato di Donald Trump potrebbe implicare un ritorno alla politica isolazionista che tra il 2017 e il 2021 è costata un indebolimento delle alleanze statunitensi in Asia e in Europa. Tanto più che, dopo la visita di Nancy Pelosi sull’isola e le crescenti incursioni militari cinesi, anche all’interno dell’establishment americano non sono mancati appelli a una ridefinizione del rapporto, tanto con l’ex Formosa quanto con la Cina popolare. Ma se Pechino potrebbe giovare da un nuovo disimpegno internazionale di Washington, l’imprevedibilità di Trump costituisce motivo di apprensione per la leadership cinese, che apprezza la stabilità sopra ogni altra cosa. Specialmente ora che, dopo l’incontro tra Biden e Xi, le due superpotenze hanno ricominciato a comunicare con regolarità. Benché la ripresa del dialogo (o un “nuovo-vecchio” volto alla Casa Bianca), difficilmente smorzeranno la rivalità tecnologica con la seconda economia mondiale.

Grandi cambiamenti non si vedono nemmeno sul fronte europeo. A inizio dicembre il summit tra i vertici di Cina e Ue ha permesso un primo confronto in presenza dopo anni di restrizioni anti-Covid. Ma anche in questo caso parlarsi faccia a faccia è stata l’occasione per esternare – non risolvere – i rispettivi fattori di insoddisfazione. Le recenti aperture di Pechino – comprese politiche più accomodanti sui visti per alcuni paesi – è improbabile distrarranno la Commissione europea dalla cosiddetta strategia di “de-risking”. Anche se le varie indagini antidumping sui veicoli elettrici e il biodiesel cinese potrebbero scavalcare la fine del 2024. Senza contare gli eventuali ritardi alla luce delle elezioni europee e di un possibile consolidamento dei partiti conservatori.

Al netto di tutto, la realtà è che la guerra in Ucraina e la cosiddetta “ambiguità filorussa” di Pechino ha compromesso il rapporto con i 27 paesi. Citando la complicità di Vladimir Putin, von der Leyen ha affermato che “l’obiettivo chiaro del Partito Comunista Cinese è un cambiamento sistemico dell’ordine internazionale con la Cina al centro.” C’è tutto il tempo necessario, considerato che il capo del Cremlino si prepara a un’altra vittoria elettorale che lo porterà salvo improbabili sorprese a governare sino al 2030 e in base alla Costituzione anche fino al 2036. E poi c’è l’Asia, il continente che sta compensando il calo delle attività economiche con Stati Uniti e Ue. Il prossimo anno saranno chiamati al voto i cittadini di Sri Lanka, Indonesia, Bangladesh, India e Pakistan. Paesi – chi più chi meno – fondamentali per la stabilità nella periferia dell’ex Celeste Impero. Soprattutto considerate le crescenti schermaglie con gli “inquilini” del Mar cinese meridionale, Filippine in primis.

Xi è consapevole dei rischi all’orizzonte. Lo ha dichiarato più volte: la Cina fronteggia “cambiamenti mai avvenuti in cent’anni di storia”. Allusione al crepuscolo delle democrazie occidentali, ma anche alle molte crisi che ribaltano sempre più spesso lo scacchiere geopolitico. Occasioni sfruttabili per guadagnare terreno nel Sud globale, intenzionato – come la Cina – a riformare un ordine internazionale ancora troppo poco rappresentativo delle economie emergenti. Ma i cambiamenti epocali comportano anche insidie: costi economici e rischi per la sicurezza delle aziende cinesi mandate a sostenere la Nuova via della seta lontano da casa. Forza, fortuna e successo: per superare al meglio il 2024 Pechino avrà bisogno di tutte le caratteristiche del Drago.

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