In un momento storico caratterizzato da incertezze e instabilità, i due principali attori del mercato, i lavoratori e le aziende, devono conciliare delle situazioni apparentemente inconciliabili: i lavoratori devono essere in grado di dare il miglior contributo possibile all’interno dell’azienda in cui operano mantenendo alta la loro collocabilità per poter gestire eventuali futuri cambiamenti, mentre le aziende devono pianificare le azioni da intraprendere in un ambiente in continuo mutamento tenendo insieme situazioni di routine con momenti di profonda discontinuità e scarsa prevedibilità.
Si tratta pertanto di essere concentrati, in modo quasi bipolare o strabico, sempre su due dimensioni: quella dell’oggi e quella del domani, quella della routine e quella del cambiamento.
Questa capacità si chiama “flessibilità”, termine che deriva dal mondo naturalistico e indica la predisposizione delle piante di lasciarsi piegare più o meno facilmente fino a un certo punto senza rompersi riuscendo a sopravvivere alle improvvise intemperie.
Attenzione, però, perché soprattutto nel mondo delle piccole imprese chi utilizza la parola “flessibilità” con riferimento alle aziende e al lavoro deve prestare molta attenzione alla natura del suo interlocutore. Per alcuni potenziali interlocutori “flessibilità” è una parolaccia; significa sempre e soltanto ingiustizia sotto forma di precarietà dei rapporti di lavoro e di arbitraria licenziabilità. E’ una cosa brutta, non deve esistere, il discorso è finito.
Sono gli stessi soggetti per i quali le parole “valutazione” e “merito” sono sinonimo di iniquo esercizio del potere da parte del “datore di lavoro”. Se invece l’interlocutore è un soggetto che vuole capire le realtà aziendali ed è interessato a dare un contributo al progresso civile, la parola “flessibilità” è un utile strumento di lettura di una moltitudine di fenomeni importanti per entrambi i soggetti (lavoratori e aziende).
Sì, perché spesso noi richiediamo che debbano essere le aziende a garantire flessibilità per poter competere con successo: in tal modo sembra che l’esigenza di flessibilità sia originata dalle imprese che vogliono competere tra di loro. Parzialmente giusto. Perché risalendo di un passo la scala delle casualità, risulta chiaro che le aziende devono essere flessibili perché le persone che compongono la nostra società, tutti noi, lo vogliono.
Forse non sempre ricordiamo che noi originiamo esigenza di flessibilità in due modi. Primo: noi, come singoli e come collettività, desideriamo accedere a una gamma sempre più ampia e dinamica di beni (merci e servizi, privati e pubblici) che siano disponibili immediatamente, personalizzati, accessibili anche online e proposti a prezzi molto bassi (o, meglio ancora, “gratis”). Siamo noi, nella nostra veste di consumatori e di utenti, a chiedere alle imprese di essere veloci, mutevoli ed efficienti, ossia in una parola, di essere flessibili.
Secondo: le persone, questa volta nella loro veste di prestatori di lavoro, desiderano che le aziende siano flessibili con riguardo alla configurazione dei rapporti di lavoro: tempi, luoghi, opportunità di crescita professionale, forme retributive e assicurative, servizi aziendali di varia natura. Il modello standard delle “otto ore al giorno per cinque giorni la settimana per 48 settimane all’anno per 40 anni nella stessa azienda e nella stessa funzione” difficilmente si concilia con le esigenze personali della generalità delle persone e ciò anche in relazione alle strutture e alle dinamiche delle famiglie e delle organizzazioni di cui le persone sono parte.
L’esigenza di flessibilità è dunque originata dalle nostre attese nella doppia veste di “consumatori” e di “lavoratori”. Sulle aziende si scarica la responsabilità di saper riconoscere e gestire questi due insiemi di attese che in parte sono contrastanti, ma che possono produrre anche sinergie. Le aziende devono essere in grado di rispondere agli stimoli e alle domande del contesto economico e sociale; a tal fine agiscono su un’ampia gamma di leve strategiche, tecnologiche e organizzative: la “flessibilità del lavoro” è solo una di esse.
In un’ottica macro, possiamo dire che l’esigenza di flessibilità si manifesta a tre livelli. A livello delle singole persone e delle famiglie di cui esse fanno parte. A livello di azienda. A livello di sistema economico locale, nazionale ed internazionale. A ciascuno dei tre livelli la flessibilità è in parte desiderata e in parte subita, poiché i tre livelli interagiscono e ciascuno di essi ha proprie esigenze e proprie dinamiche.
All’esigenza (auspicata o subita) di flessibilità si contrappone l’esigenza di stabilità. Le persone, le aziende, i sistemi economici vogliono e devono essere flessibili, ma contemporaneamente vogliono tenere sotto controllo i propri destini o, se si preferisce, i rischi connessi alla flessibilità.
Noi ricerchiamo la flessibilità, ma la flessibilità costa. Le singole persone ricercano la flessibilità funzionale alla propria vita extra- lavorativa e alla realizzazione dei propri obiettivi; in parte sfruttano e in parte subiscono la flessibilità necessaria alle aziende e ai sistemi economici; alla ricerca di un equilibrio sosterranno qualche costo e affronteranno qualche rinuncia. Le imprese devono essere flessibili, ma sanno, ad esempio, che elevati tassi di turnover interno, in entrata e in uscita (in generale, condizioni di lavoro poco stabili), possono essere molto dannosi con riguardo ai processi di apprendimento collettivo, all’identificazione e alla motivazione.
Buon anno di flessibilità!