“Un autogol per il calcio”, “danno irrimediabile per il sistema”, “bella e grande fesseria”, “il campionato perderà competitività”, e via così su questi toni apocalittici. A sentire i presidenti in coro, pare che cancellando il Decreto Crescita il governo abbia appena distrutto il pallone italiano. Che tutti i mali della Serie A derivino e deriveranno dalla politica insensibile alle esigenze del movimento. Che anche il calciomercato ormai è rovinato, e ci perderemo l’arrivo di chissà quali campionissimi che avrebbero portato lustro all’intera nazione. Tutte balle: in un Paese normale, le tasse si pagano fino all’ultimo centesimo.
La crociata della lobby del pallone – prima per infilare l’emendamento nel Milleproroghe e poi per lamentarsi quando è saltato – è la fotografia perfetta di un sistema marcio fino al midollo, incapace e viziato, che invece di rimboccarsi le maniche pretende di continuare ad andare avanti con sotterfugi e privilegi, e piange se questi non gli vengono concessi. C’è tutta l’arroganza del potere che pretende, e quasi ottiene, di modificare una legge che era stata appena cancellata, con un altro provvedimento ad hoc, una mini-proroga di appena due mesi, giusto giusto per il mercato invernale, un favore smaccatamente sfacciato: quale altra categoria oserebbe tanto? E c’è anche il lagnoso capriccio di chi pensa che tutto gli sia dovuto: invece di pensare ai propri errori, ai bilanci indebitati, a modelli di business anacronistici e insostenibili, i patron se la prendono con la politica che non li ha fatto il solito regalo.
Stiamo parlando da giorni di una norma palesemente sbagliata, che era stata una furbata fin da principio (quando qualcuno aveva pensato di estendere ai calciatori stranieri quello che doveva essere un incentivo destinato a ricercatori e cervelli in fuga). Da qualsiasi punto lo si guardi, il Decreto Crescita applicato al calcio era semplicemente assurdo. Non esiste una buona ragione al mondo perché le società di calcio debbano pagare meno tasse sugli stipendi di qualsiasi altra azienda. Per come era scritta, poi, cioè con una soglia di applicazione bassissima fissata ad appena un milione lordo annuo (quindi praticamente qualsiasi giocatore di Serie A), la norma aveva anche un effetto distorsivo sul mercato, chiaramente penalizzante nei confronti dei giovani italiani: in un momento in cui non facciamo altro che lamentarci della crisi della nazionale, scriviamo una legge per cui conviene più acquistare un carneade da qualche campionato esotico piuttosto che un ragazzo del vivaio dalle serie minori.
Era un provvedimento straordinario, divisivo, iniquo. È durato fin troppo e adesso è finito. Non si può spacciare per una catastrofe il semplice ritorno alla normalità. Con o senza Decreto Crescita, i calciatori si comprano, gli stipendi si pagano, le tasse si versano. Chi vuole un campione che guadagna due, tre o magari anche cinque milioni l’anno, deve poterselo permettere: se il problema diventa quel milione in più o in meno di contributi da dare allo Stato, allora probabilmente non dovrebbe proprio acquistarlo. Non credete alle solite balle del pallone italiano: se nelle prossime settimane il calciomercato invernale sarà noioso e asfittico, non sarà perché è stato cancellato il Decreto Crescita ma perché i club non hanno un centesimo in cassa. Se il calcio italiano sta morendo non è responsabilità della politica. È solo colpa sua.