I giovani non hanno più voglia di lavorare. Quante volte abbiamo sentito questa frase nell’ultimo anno? Anzi, se volessimo essere veramente precisi dovremmo dire negli ultimi anni. La risposta corretta è svariate decine, se non addirittura centinaia di volte. Perché questo refrain è diventato una sorta di vero e proprio genere letterario che da molto tempo, ormai, riempie le pagine dei giornali e fornisce molteplici spunti di polemica ai talk show di ogni rete nazionale e locale, arricchito dalle innumerevoli interviste a grandi chef, imprenditori e Vip – da Alessandro Borghese a Flavio Briatore passando per Claudio Amendola, per citarne solo alcuni – che dalle colonne di prestigiose testate giornalistiche confermano l’allarme: i giovani non hanno più voglia di lavorare, i giovani non hanno più spirito di sacrificio.

Esiste uno sconfinato archivio di articoli giornalistici dedicati al filone “i giovani non hanno più voglia di lavorare” ma ce ne sono alcuni che meritano di essere citati perché estremamente rappresentativi di questa distopica narrazione. Per esempio, nel 2021 un titolone sconquassa le ferie estive delle redazioni di mezza Italia: “Cerco camionisti a 3000 euro al mese ma nessuno vuole lavorare”. Ben presto si scopre che le condizioni strombazzate a mezzo stampa non erano esattamente quelle realmente offerte a coloro che avevano provato a proporsi all’azienda in questione. Menzione d’onore, poi, per l’azienda veneta che a mezzo stampa, e a più riprese nel corso degli anni, si è lamentata di non riuscire a trovare giovani operai e che nel 2021 abbiamo ritrovato invischiata in una brutta indagine per caporalato. Ovvero sfruttamento di lavoratori.

Ma passiamo al 2022 e 2023, gli anni della serie infinita di imprenditori che si lamentano di non riuscire a trovare lavoratori desiderosi di sperimentare una meravigliosa esperienza durante la stagione estiva e di commercianti e industriali che cercano disperatamente dipendenti rigorosamente giovani. “Offro 1.500 euro al mese ma i giovani non vogliono lavorare”, dichiara un ristoratore che racconta di aver dovuto chiudere il negozio appena inaugurato. “Offro fino a 2.000 euro al mese ma non trovo giovani disposti a lavorare”, afferma invece un imprenditore pugliese di altro settore che successivamente racconta di essere stato letteralmente invaso dai cv dopo l’intervista rilasciata a tv e quotidiani. Sconvolgente, chi l’avrebbe mai detto. Il filone diventa dunque copione: più queste lamentele finiscono dritte dritte in prima pagina sui giornali, più iniziano a moltiplicarsi sui social i post di titolari che raccontano di offrire opportunità di lavoro e di non riuscire a trovare nessuno, post che immancabilmente vengono ripresi dalla stampa locale e nazionale per alimentare il dibattito, provocano una corsa all’invio di cv da ogni parte d’Italia, dando vita a un meraviglioso filone narrativo che ricorda tanto il “paradosso del gatto imburrato”.

Ma proseguiamo, perché di esempi da analizzare ce ne sono molti e non sempre gli effetti della pubblicità mediatica hanno sortito gradevoli conseguenze: ricordiamo, per esempio, l’intervista all’imprenditrice milanese che dava addosso ai giovani fannulloni e che, purtroppo per lei, le si è rivoltata contro perché nel giro di pochissimi giorni si è scoperto, grazie alla testimonianza di una ex lavoratrice, che le condizioni proposte non erano esattamente così allettanti come aveva fatto credere. Altra menzione d’onore per il titolare di una storica pasticceria milanese che ha raccontato di essere costretto a chiudere per mancanza di giovani disposti a lavorare. Anche in questo caso, insomma, le ragioni della chiusura della storica bottega erano decisamente altre e a raccontarle sono stati gli stessi clienti del circondario.

Nel frattempo, nel corso degli anni si moltiplicano le testimonianze di lavoratori di ogni genere ed età che raccontano per quale motivo, ad esempio, sono fuggiti dal settore del turismo e della ristorazione o da svariate attività commerciali dal Sud al Nord, raccontando di paghe da fame, contratti irregolari, turni massacranti e ogni tipo di irregolarità esistente. Condizioni di irregolarità che sono comprovate non solo da una marea di inchieste giornalistiche sul tema ma anche e soprattutto dai dati emersi dagli ultimi rapporti di vigilanza dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro che hanno rivelato, anzi sarebbe più corretto dire confermato, che in Italia l’incidenza di irregolarità a livello nazionale è pari al 67% e che la “Palma d’oro” del settore che presenta la maggior percentuale di irregolarità è assegnata proprio a quello del turismo e della ristorazione con il 76% a livello nazionale e punte del 95% al Sud. Non che nel commercio e nel terziario la situazione sia migliore, sia chiaro, ma colpisce che il settore considerato più irregolare corrisponda esattamente a quello che fa più fatica a trovare personale e che più si è lamentato di questa difficoltà a mezzo stampa. Che coincidenza.

Come abbiamo già raccontato su Ilfattoquotidiano.it, questo genere letterario che narra dell’atavica mancanza di voglia di lavorare dei giovani affonda le sue radici in un passato ben più remoto degli anni post-pandemici: facendo una ricerca storica negli archivi dei maggiori quotidiani italiani emergono infatti decine di articoli che puntano il dito contro quelli che giovani lo sono stati negli anni ’50, ’60, ’70, ’80, ’90, ovvero gli attuali settantenni, sessantenni, cinquantenni e quarantenni che oggi sembrano essersi cambiati di casacca dismettendo gli abiti delle vittime e passando a quelli dei carnefici che umiliano gli odierni giovani senza minimamente prendere in considerazione una serie di fatti inoppugnabili, tipo che le condizioni offerte ai giovani degli ultimi dieci anni abbondanti sono spesso al limite dello sfruttamento, che di giovani lavoratori ce ne sono sempre meno perché si fanno sempre meno figli perché, caso strano, è difficile mantenerli senza stipendi dignitosi e contratti stabili, e che in realtà i dati Inps dimostrano che la percentuale di forza lavoro giovane nel 2023 si attesta al 38% rispetto alla platea totale degli assunti, in crescita costante da almeno 4 anni a questa parte.

Come avevamo già spiegato nel maggio scorso, secondo i dati dell’Osservatorio Precariato dell’Inps, la percentuale di giovani under 29 assunti con contratti stagionali ammontava al 37,7% nel 2019 ed è andata via via aumentando nel corso degli anni fino ad attestarsi al 38,6% del 2022, segnando peraltro, sempre nel 2022, il record storico di assunzioni stagionali pari a 1.018.089 contratti, quasi 100.000 in più rispetto all’anno precedente e poco meno del doppio rispetto al 2017. Se la situazione era questa per l’anno 2022, i nuovi dati dell’Osservatorio dell’Inps confermano in pieno questo trend perché comparando le assunzioni di giovani under 29 dei primi 9 mesi dell’anno con quelle dello stesso periodo degli anni precedenti scopriamo che i giovani under 29 sono il 38,2 della forza lavoro totale con 2.402.821 assunti su 6.271.872, con una grande differenza in termini di qualità dell’occupazione, perché quella dei giovani è trainata per lo più da contratti a termine, stagionali e intermittenti mentre quella dei lavoratori 30-50 e 51+ da contratti a tempo indeterminato, a termine e in somministrazione.

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