Il Regno Unito si sta preparando ad unirsi agli Stati Uniti e ad altri paesi occidentali per lanciare una serie di aggressioni aeree contro lo Yemen o obiettivi affiliati allo Yemen nel Mar Rosso. Lo riferisce il Times aggiungendo che nelle prossime ore verrà rilasciata una dichiarazione congiunta “senza precedenti”, in cui si avvertirà Sana’a di sospendere le sue operazioni altrimenti dovrà affrontare una risposta militare. Il New York Times, citando il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, spiega infatti che il Pentagono ha già elaborato piani per attaccare le basi ribelli Houthi nello Yemen, comprese quelle dove sono attualmente trattenute le navi dirottate.
La notizia arriva dopo che il 31 dicembre tre imbarcazioni Houthi sono state affondate da elicotteri statunitensi provocando la morte di dieci miliziani. Il giorno stesso Safar al-Sufi, direttore dell’ufficio del leader degli Houthi nello Yemen, ha affermato che gli Stati Uniti, attaccando le forze armate yemenite in mare, hanno essenzialmente “provocato una risposta contro sé stessi”, sottolineando che Washington “non sfuggirà alle conseguenze delle sue azioni”. Il portavoce del generale di brigata delle forze armate yemenite Yahya Saree aveva già lanciato un avvertimento la scorsa settimana affermando: “Mettiamo in guardia il nemico americano dalle ripercussioni di qualsiasi escalation contro la nostra nazione e il nostro popolo”. Non solo, rivolgendosi a Washington, il portavoce aveva detto: “Dovreste prestare ascolto agli avvertimenti del leader del movimento Ansar Allah (Sayyed Abdul Malik al-Houthi, ndr)”. A questo proposito, il leader di Ansar Allah ha affermato in precedenza che “gli Stati Uniti saranno un bersaglio diretto se attaccano lo Yemen”.
L’1 gennaio il parlamento yemenita a Sana’a ha poi rilasciato una dichiarazione in cui dichiara che la presenza nei territori yemeniti degli eserciti della task force marittima a guida Usa “equivale a un atto di occupazione”. L’organo legislativo ha quindi affermato la necessità di trattare le forze di occupazione sulla base del fatto che sono “obiettivi nemici”, sottolineando che “la mobilitazione americana costituisce una minaccia reale alla sicurezza delle rotte marittime internazionali nel Mar Arabico e nel Mar Rosso”. Il giorno stesso, secondo l’agenzia di stampa iraniana Tasnim, un cacciatorpediniere avanzato appartenente alla Marina di Teheran è entrato nel Mar Rosso attraverso lo stretto di Bab al-Mandeb. La nave da guerra in questione, la Alborz, fa parte del Gruppo 94 della Marina iraniana ed è dotata di missili da crociera a lungo raggio, come riportato dall’agenzia di stampa Mehr, ed è considerato uno dei più formidabili cacciatorpedinieri per la difesa dell’Iran attualmente schierati. Secondo Bloomberg, questa mossa dell’Iran complica l’obiettivo dichiarato di Washington di proteggere la via navigabile e potrebbe essere vista come una sfida alla task force marittima nel Mar Rosso. Media iraniani, ripresi anche da Al Jazeera, riportano inoltre che il capo della sicurezza iraniana, Ali Akbar Ahmadian, ha tenuto un incontro con il principale negoziatore Houthi Mohammad Abdulsalam (non è chiaro dove o quando abbia avuto luogo l’incontro) nel quale Teheran avrebbe elogiato gli Houthi per il loro sostegno ai palestinesi e per la loro forte opposizione a Israele.
L’escalation nel Mar Rosso arriva però in contemporanea con una riduzione della presenza navale degli Stati Uniti nel Mediterraneo orientale, mossa considerata da alcuni analisti come un segnale da parte di Washington a Teheran per non aggravare la situazione di tensione nella regione. Il 26 dicembre gli Usa hanno infatti preso la decisione di ritirare la portaerei USS Gerald Ford dalle coste libanesi e israeliane. La Uss Ford, la portaerei più nuova e più grande della Marina statunitense, era stata schierata all’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre con scopi deterrenti, in particolare contro il movimento libanese Hezbollah nel sud del Libano. Secondo l’analista militare israeliano Amos Harel, che scrive su Haaretz, “la riduzione della potenza navale statunitense nella regione potrebbe essere stata accompagnata da un segnale separato a Teheran di non aggravare la situazione già tesa come un risultato”, spiegando che “la diminuzione della presenza navale americana nella regione non è una buona notizia per Israele”. Scrive infine Harel che “recentemente ci sono state telefonate tese” tra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, “principalmente sui rapporti di Netanyahu con l’Autorità Nazionale Palestinese”. “Il flusso continuo di dichiarazioni fatte dai ministri di estrema destra del governo Netanyahu, che parlano di trasferire la popolazione palestinese fuori da Gaza e di rilanciare gli insediamenti ebraici lì, non contribuisce a creare un’atmosfera di fiducia in Israele da parte di Washington”, conclude l’esperto.