Il nuovo Patto di stabilità, che entrerà in vigore nei prossimi mesi dopo le ultime negoziazioni tra Consiglio, Commissione e Parlamento Ue, imporrà subito all’Italia strette fiscali di almeno 4-5 miliardi l’anno, destinate a diventare ancora più severe durante la prossima legislatura. Già nell’autunno 2024 il governo, per replicare il taglio del cuneo fiscale e l’accorpamento delle prime due aliquote Irpef, dovrà quindi decidere se “tagliare le spese o aumentare altre tasse“, spiega Massimo Bordignon, vicepresidente dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica e membro dello European Fiscal Board, un comitato di consulenza del presidente della Commissione europea. Il suo giudizio – in quest’intervista al fattoquotidiano.it parla a titolo personale – è che l’accordo raggiunto dai ministri delle Finanze Ue il 20 dicembre peggiora l’iniziale proposta di riforma introducendo vincoli uguali per tutti, come quelli del vecchio Patto, e a volte non coordinati tra loro. Altro che regole più semplici e trasparenti. Il ministro Giancarlo Giorgetti come ne esce? “L’Italia avrebbe potuto giocarsela meglio fin dall’inizio”.
Professore, quali saranno le prime conseguenze nel 2024, quando l’Italia insieme a molti altri Paesi andremo in procedura di infrazione per deficit eccessivo?
La procedura, che sarà probabilmente avviata dopo le elezioni europee, richiederà di portare il deficit dal 4,3% del pil (stima del governo nella Nadef) a meno del 3% nell’arco di tre anni. La riduzione annua minima è fissata allo 0,5%. La Commissione dovrà poi decidere l’ammontare dello sconto da concedere a fronte dell’incremento degli interessi sul debito: potrebbe essere di uno 0,1 o 0,2%. Servirà comunque un aggiustamento di 4-5 miliardi, forse anche di più perché deve essere “strutturale”, cioè depurato dagli effetti del ciclo economico.
Come farà il governo a rifinanziare la riduzione del cuneo fiscale e la prima tranche della riforma Irpef?
Costano 15 miliardi solo per un anno, da sommare alla correzione del deficit. La strada dello scostamento di bilancio non sarà più percorribile, per cui, se vuole mantenerli, il governo dovrà tagliare le spese o aumentare altre tasse.
Cosa succederà nel lungo periodo, una volta usciti dalla procedura?
La situazione è piuttosto confusa ed è complicato capire come funzionerà in concreto, perché sulla proposta della Commissione sono state innestate le “salvaguardie” volute dalla Germania. Dal 2027 il Paese dovrà presentare un programma pluriennale di aggiustamento della durata di 4 anni, allungabili a 7 se si impegna a fare riforme e investimenti nei campi di maggior interesse per la Ue come la transizione energetica e digitale. Questo perché si suppone che gli investimenti la crescita e quindi una più rapida riduzione del debito/pil, che sarà l’obiettivo di fondo del piano. La Commissione verificherà controllando l’evoluzione della spesa primaria netta. Ma gli ulteriori vincoli entrati nell’accordo renderanno il percorso ancora più restrittivo: sarà necessario anche far sì che il rapporto debito/pil cali in media di 1 punto di pil all’anno e che il deficit alla fine del piano scenda sotto l’1,5% del pil.
In concreto a quanto ammonterà la stretta fiscale per l’Italia?
Un’altra regola impone di ridurre il deficit strutturale dello 0,4% l’anno se il piano è di quattro anni e dello 0,25% se è di sette. In quest’ultimo caso la correzione per l’Italia sarebbe di circa 5 miliardi l’anno, minore rispetto a quella già prevista nella Nadef che è pari allo 0,4%. Ma non credo che questo sarà sufficiente per rispettare il requisito di ridurre il debito/pil di un punto all’anno. La sovrapposizione di diversi vincoli creerà molte complicazioni.
Il think tank Bruegel calcola che dovremo arrivare a un avanzo primario strutturale (la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito) senza precedenti, del 4,6% del pil. È sostenibile?
Mi sembra una stima eccessiva. L’avanzo richiesto dipenderà però molto dall’andamento della spesa per interessi: se continuerà a salire verso il 5% del pil potrebbe arrivare a 3,5 punti, difficili da raggiungere. Se calerà potrebbe bastare un avanzo di 2,5 punti, non impossibile e già conseguito in passato.
Le nuove regole sono più o meno severe (e più o meno credibili) rispetto al vecchio Patto in vigore fino al 2020?
Le precedenti erano peggiori, sulla carta: penso alla riduzione del debito di un ventesimo all’anno e alla regola di avvicinamento del saldo strutturale all’obiettivo di medio termine, che imponeva di arrivare addirittura a un surplus di 0,25 punti rispetto al pil. Ma la prima non è mai stata applicata e rispetto alla seconda l’Italia ha spesso ottenuto flessibilità, anche se dal 2013 al 2019 ha fatto un aggiustamento non lieve. Il nuovo Patto impone vincoli a volte contraddittori e potrebbe richiedere sacrifici eccessivi, ma resta la discrezionalità politica della Commissione per cui credo ci saranno spazi di manovra per trovare una via di uscita. Non so se lo stesso ministro dell’Economia tedesco creda che le salvaguardie siano davvero attuabili: di sicuro ne aveva bisogno, politicamente, per poter rivendicare in patria di non aver ceduto.
Il ministro Giorgetti ha ammesso che l’accordo è un passo indietro rispetto alla proposta della Commissione Ue.
L’auspicio era che la riforma prevedesse regole semplici e chiare e percorsi di aggiustamento personalizzati per i diversi Paesi. Invece ci ritroviamo con tre diversi obiettivi più il deficit strutturale e regole quantitative uguali per tutti.
Il governo però rivendica di aver ottenuto un occhio di riguardo – fino al 2027 – per l’aumento degli interessi sul debito e un allungamento a sette anni del periodo di aggiustamento a fronte dell’impegno a fare investimenti. Si poteva ottenere di più?
Avremmo potuto giocarcela meglio fin dall’inizio. L’accordo permette di avere un quadro ragionevole nel breve periodo, ma è molto miope. Anche la soluzione di allungare la durata del piano se si fanno investimenti è di second best: meglio sarebbe stato decidere di finanziare quelli nella transizione climatica e digitale, nella ricerca e nella difesa collettivamente, attraverso il bilancio europeo. Invece l’Italia ha insistito sulla golden rule, anche se si sapeva che non sarebbe passata.