Nella notte tra l’8 ed il 9 dicembre scorsi si è scatenato un incendio nell’ospedale di Tivoli (RM) causando il decesso di tre pazienti. La notizia mi ha molto colpito e perché persone fragili e malate si sono recate in un luogo di cura per riceverne assistenza e invece vi hanno trovato la morte, e perché il rogo di questo importante presidio sanitario l’ho interpretato come simbolo di un Servizio Sanitario Nazionale ormai in via di dissoluzione.
Abbiamo passato il punto di non ritorno. I governi, di vari colori politici, che si sono succeduti negli ultimi venti anni hanno ridotto, in maniera drastica, tutto l’apparato della pubblica amministrazione (di cui i medici sono parte) con un attacco sistematico ai diritti dei lavoratori, a colpi di decreti legge e con campagne massmediatiche denigratorie.
Ricordiamo benissimo i dipendenti pubblici “fannulloni” di “brunettiana memoria”, o il giudizio dell’attuale ministro dell’Economia Giorgetti sui medici di famiglia definiti inutili rappresentanti di “un mondo finito” ormai sostituito da Internet. Pregiudizi atavaci? Esternazioni personali ed estemporanee? Direi di no, considerato la forza e il peso di chi li ha espressi. Parole ed esternazioni di questo tipo hanno contribuito, insieme al resto, a distruggere il tessuto connettivo che metteva in comunicazione le istituzioni con i cittadini, a depotenziare la macchina organizzativa, la pubblica amministrazione appunto, che ha permesso lo svolgersi di processi complessi nel vivere civile quotidiano e, con il blocco delle assunzioni ed il mancato rimpiazzo dei pensionamenti da parte di nuove leve, si è spezzata una cinghia di trasmissione che permetteva di traslare saperi, competenze ed esperienze in una virtuosa staffetta generazionale.
E questo ha riguardato anche e soprattutto la sanità perché negli negli ultimi 10-15 anni non c’è stato l’interesse o meglio la volontà politica di mettere la Sanità, intesa come Salute Pubblica, al centro dell’agenda del nostro Paese. E’ mancata la lungimiranza di comprendere che salute ed istruzione contribuiscono alla ricchezza e alla crescita di una Nazione. Oggi siamo globalizzati, in un mondo senza più confini e sicuramente più interconessi, ma decisamente più poveri, meno sapienti e meno coscienti dei nostri diritti come cittadini.
Le molteplici giornate di sciopero dei medici della dirigenza ospedaliera vogliono rappresentare il disagio per condizioni lavorative proibitive tra turni massacranti per carenza di personale, mancati riposi, straordinari non pagati e, dulcis in fundo, un bel taglio alle loro pensioni maturate in virtù di una legge, di un Patto che lo Stato si appresta a disattendere.
I disagi dei medici si traducono in liste di attesa infinite all’accesso di prestazioni specialistiche per i cittadini e in un servizio pubblico depotenziato rispetto ad un servizio privato accreditato o privato puro. Non si trovano risorse per assumere nuovo personale e retribuirlo in maniera adeguata (i medici italiani hanno gli stipendi più bassi d’Europa), ma si trovano risorse per pagare cooperative che somministrano alle strutture pubbliche, soprattutto in punti nevralgici come i pronto soccorso, personale medico a gettone su cui la struttura pubblica non ha alcun potere autoritativo, né di controllo sulle competenze ed i titoli di formazione specifica. Tant’è che da alcune inchieste televisive è emerso che alcune di queste cooperative o società di servizio hanno permesso di ricoprire il ruolo di medico nei pronto soccorso, nella migliore delle ipotesi, a medici senza le competenze necessarie a svolgere quel ruolo, ma in alcuni casi anche a persone prive di laurea. E questo non è proprio come spacciarsi per pasticciere senza esserlo. Non abbiamo a che fare con torte decorate male o ciambelle bruciacchiate, ma con la salute delle persone e l’operatore che ci cura e la struttura che ci accoglie può fare e fa la differenza tra la salute e la malattia, tra la vita e la morte.
Del resto durante la pandemia chi ha risposto all’appello sono stati i medici della Sanità Pubblica, non già le cooperative, le società dei servizi, le strutture private che, da sempre, mettono a disposizione del servizio pubblico solo prestazioni a basso costo, ma ad alto rendimento. Come dire “alle rogne pensateci voi”, dove per Voi si intende noi medici del Servizio Sanitario Nazionale.
Medici che hanno pagato con la vita per essersi trovati in prima linea, senza armi, a fronteggiare lo tsunami che ci ha travolti durante la pandemia. Circa 500 medici morti, una strage! Di questi la metà medici di medicina generale, proprio gli inutili rappresentanti di un “mondo finito”. Saranno mica morti di freddo!?! La campagna di denigrazione ha riguardato anche i medici di Medicina di famiglia definiti come professionisti che lavorano poco, circa 3 ore al giorno, e guadagnano tanto! La realtà invece, oggi, dice che i concorsi della scuola di formazione in medicina generale vanno quasi deserti e così anche i bandi per la copertura di incarichi vacanti sia per guardia medica che per la medicina di famiglia.
Mi domando e chiedo: tutti matti i giovani medici che decidono di non fare questo lavoro poco impegnativo e molto remunerato? O forse non è vero che si lavora poco e ancor di più non è vero che si guadagna tanto.
La forza del nostro Sistema sanitario è sempre stata la presenza sul territorio, in maniera capillare e puntuale, di circa 55mila studi medici ora ridotti a 45mila, più postazioni di guardia medica, oggi tristemente dimezzate, che hanno saputo intercettare, nel tempo, i bisogni di salute dei cittadini e dare comunque delle risposte, nelle grandi città cosi come nei paesini sperduti sulle montagne. Ed invece di valorizzare quello che è stato un modello vincente, unico al mondo, carichi di pregiudizi nei confronti degli inutili rappresentanti di un “mondo finito”, pregiudizio che abbiamo, evidentemente, traslato anche in Europa, il governo precedente ha proposto l’istituzione di 1300 Case della Comunità per la gestione delle cure primarie. Case della Comunità, brutta copia delle Case della Salute già bocciate da Agenas nel 2012, al solo scopo di accedere ai fondi del Pnrr, senza un reale progetto di sviluppo.
Questo governo ne ha proposto la riduzione a 900 circa che, volente o nolente, devono essere comunque realizzate pena la perdita dei fondi, in parte già spesi, per opere di ristrutturazione edilizia. Chi ci dovrà lavorare, a parte gli specialisti e gli operatori socio sanitari, sono i medici di medicina generale. A fare cosa è ancora oggetto di discussione e poi qualcuno dovrà spiegare ai cittadini, soprattutto anziani, il perchè dovranno recarsi in una casa di comunità per trovare il proprio medico curante invece che nel proprio condominio, o nel proprio quartiere.
Non tutti i territori saranno dotati di Case di Comunità: 900 strutture non potranno sostituire i 45.000 presidi sanitari capillarmente sparsi su tutto il territorio nazionale. Allora qual’è la soluzione che la politica propone? Dare vita a case di comunità spoke (piccole) in raccordo con le case di comunità hub (grandi). Mentre le seconde sono costruite o ristrutturate con i soldi del Pnrr appunto quindi pubbliche, le seconde saranno gestite in autonomia dai medici, prese in affitto o in leasing con l’aiuto finanziario di Enpam, la cassa previdenziale dei medici stessi. In pratica si chiede ai medici di lavorare per pagare la costruzione delle case di comunità, con uno stipendio che non recupera neanche l’inflazione – considerato l’esiguità delle risorse che vengono destinate ai vari rinnovi contrattuali – e per pagare i contributi Enpam per una pensione che, per essere almeno proporzionale a quanto versato, richiede una vita lavorativa almeno fino a 70 anni. Se questa resterà la proposta per rilanciare la medicina del territorio non credo che di giovani medici disposti a lavorare in queste condizioni ce ne saranno molti!
Ma poi cosa ha a che fare tutto questo con la professione del medico? Cosa c’entra tutto ciò con la relazione di cura? E la mission di una cassa previdenziale è fare il promotore finanziario o quella di assicurare l’erogazione delle pensioni ai suoi contribuenti? Pensioni, tra l’altro, che i medici pagano a caro prezzo. Allora visto che le istituzioni continuano ad essere sorde e insensibili al problema è necessario che cittadini italiani siano meno distratti dai campionati di calcio e si occupino di più dei propri diritti, di cui quello alla salute, scendendo in piazza a difesa del SSN come già hanno fatto gli spagnoli (un milione di persone), i tedeschi, francesi e inglesi.
Dopo, ogni recriminazione sarà inutile