di Savino Balzano

C’è una canzone di Fabrizio De André che esprime quanto ancora oggi viviamo, quanto ancora oggi moriamo. Fa parte di “Creuza de mä”, l’undicesimo album di Faber. La canzone si intitola Sidún: protagonista è un uomo, il suo strazio, il suo lamento inconsolabile dinanzi alla morte del figlio dilaniato dai cingolati e ridotto a “grumo di sangue, orecchie e denti di latte”.

Il testo è ispirato a quanto accadde a Sidone, in Libano. Fu lo stesso De André a raccontarlo: “me la sono immaginata, dopo l’attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982” e “la piccola morte, a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo, bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea”.

È una canzone meravigliosa per il testo (in genovese), ma forse soprattutto per i suoni che riesce ad esprimere: il lamento finale davvero ricorda il pianto dilaniante del padre, il pianto più disperato di tutti, il più profondo, nero, sordo, cupo. È il pianto più intimo e viscerale, quello degli ultimi che vedono i propri figli massacrati dalla malvagità che solo l’uomo è in grado di concepire.

Quanto accade oggi a Gaza è grave in egual misura, forse ancora di più, ma ciò che disarma maggiormente è la totale assenza di reazioni reali, concrete, incisive. Un manipolo di criminali sta operando un massacro che rievoca immagini che avremmo voluto consegnate inesorabilmente alla storia e alla memoria: invece torna ad accadere, accade ancora oggi e dobbiamo avere il coraggio di pronunciarle certe parole, denunciando i crimini di guerra di cui il governo israeliano si sta macchiando, nel genocidio cui sottopone indiscriminatamente i figli di Gaza.

E oggi quel sangue non macchia più le sole mani di Benjamin Netanyahu e del suo governo in gran parte fascista, ma di tutta Israele che non lo ferma. Israele tradisce la memoria dei suoi figli massacrati dai terroristi lo scorso 7 ottobre e consegna il suo popolo a decenni di pericoli e insicurezza.

Oggi Israele attacca campi profughi e ospedali; dopo averli affamati e assetati ammassa civili nudi in ginocchio dietro la minaccia di una canna di fucile e l’Occidente muore sotto il peso delle sue insopportabili ipocrisie. Negli occhi di quei bambini tremanti io colgo lo sguardo di mio figlio e non riesco a contenere la commozione: fate lo stesso, cercate in quegli occhi gli sguardi dei vostri figli e non rassegnatevi dinanzi alla morte della vostra stessa civiltà. Oggi a Gaza muore ancora l’Occidente e dobbiamo avere il coraggio di dircelo, di pretendere che tutto cessi, che il sangue innocente smetta di scorrere sotto i colpi di un esercito di oppressori, di invasori. Nessun diritto di difesa esercita oggi Israele, nessuno: solo una cieca e autolesionistica oppressione.

Mentre sorridiamo ai nostri cari, mentre i vostri bambini scartano i regali, mentre brindiamo all’arrivo del 2024, a Gaza piovono le bombe sui civili, sulle donne, sugli uomini, sui neonati. Come si può temporeggiare dinanzi all’immagine di due orfani che provano a consolarsi sporchi di sangue e polvere con un bacio? Come pensare anche solo per un attimo di accampare qualche giustificazione?

A Gaza muore ancora l’Occidente, come tante volte è accaduto, schiacciato sotto il peso del suo ipocrita etnocentrismo, della stucchevole presunzione di chi pretende di rappresentare i migliori valori, la civiltà in senso assoluto.
E invece non resta che un lamento, lungo e caustico, versato corrosivo sulle nostre stesse anime.

‘nte sta çittæ
ch’a brûxa ch’a brûxa
inta seia che chin-a
e in stu gran ciaeu de feugu
pe a teu morte piccin-a

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