“Il killer di via Poma è il figlio di Pietrino Vanacore”. L’ultima pista su uno dei più noti cold case italiani porta di nuovo alla famiglia del portiere del palazzo in cui si trovavano gli uffici dell’Associazione degli Alberghi per la Gioventù, all’interno dei quali il 7 agosto 1990 fu uccisa Simonetta Cesaroni. Non è la prima volta che la famiglia Vanacore finisce nel mirino degli investigatori solo che stavolta ad essere indicato come presunto killer non è il padre ma il figlio. Il portiere di via Poma fu il primo ad essere arrestato per l’omicidio della ragazza, pochi
La relazione – visionata da ilfattoquotidiano.it – analizza dettagliatamente le fasi successive al delitto e i carabinieri sostengono che anche le indagini scientifiche non hanno aiutato ad orientare le investigazioni e a individuare l’assassino di Simonetta Cesaroni. “Ciò che invece fin da subito è emerso con chiara evidenza – si legge – sono i comportamenti anomali, inconsueti e innaturali assunti dai coniugi Pietrino Vanacore e Giuseppa De Luca a cominciare dai momenti immediatamente precedenti alla scoperta del cadavere della Cesaroni e reiterati nel tempo. Proprio la Corte d’Assise di appello di Roma nella motivazione della sentenza con cui fu assolto Brusco si è dedicata a descrivere dei punti oscuri della vicenda che conducono alle condotte dei coniugi Vanacore”. Quali sono questi punti oscuri? Sono ormai noti a chiunque abbia una conoscenza approfondita del caso: la resistenza della portiera a consegnare le chiavi dell’appartamento al personale delle volanti, il possesso stesso delle chiavi con il nastrino giallo, quelle di riserva dell’appartamento. Ma anche il rinvenimento della agendina Lavazza che Vanacore avrebbe dimenticato nell’appartamento in cui fu stata ritrovata Simonetta. Tale agendina, con tanto di rubrica telefonica, venne poi per errore restituita ai genitori di Simonetta dagli inquirenti, certi che appartenesse alla ragazza, salvo poi scoprire che era di Vanacore.
Ci sarebbe poi la discrepanza già citata nell’alibi di Vanacore e le telefonate giunte, la sera del 7 agosto, a casa di Mario Macinati, il fattore dell’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, presidente dell’Aiag, nei cui uffici fu uccisa la giovane. L’avvocato non disponeva di un telefono nella sua tenuta e quindi per contattarlo Vanacore avrebbe composto il numero di Macinati, indagato per falsa testimonianza per via del suo atteggiamento poco collaborativo. Una di queste intercettazioni, registrata all’interno dell’auto di famiglia, cattura la conversazione tra il figlio di
Macinati, Giuseppe e sua madre che avrebbe risposto al telefono della tenuta. La donna parla con il figlio di due telefonate provenienti da Roma, dalla sede degli ostelli. Nella prima che risale alle 20,30 le si chiede di avvertire l’avvocato Caracciolo di Sarno. Nella seconda, come si legge dal verbale, insiste per parlarci. Ci sarebbe poi anche la strana coincidenza del telefono di Salvatore Volponi, il datore di lavoro di Simonetta che le aveva affidato l’incarico all’Aiag, rimasto occupato a lungo occupato quella sera, fino alle 21. “A questi punti – continuano i militari – vanno aggiunti anche i seguenti: il ritardo della De Luca ad uscire dall’appartamento per accompagnare Paola Cesaroni, sorella di Simonetta, presso gli uffici dell’Aiag facendola attendere tra i 10 e i 15 minuti. Dopo aver fatto notare ai presenti che la porta era regolarmente chiusa a chiave con più mandate e, una volta aperto su insistenza di Paola Cesaroni,Giuseppa De Luca pronunciava le seguenti parole: a questo punto ho paura perché con quello che mi avete detto mi avete impressionato. Entrate prima voi”. Si aggiunge anche “la strana risposta data all’agente della volante in attesa davanti alla porta chiusa dell’ufficio, ovvero di essere la portiera, di non sapere nulla e di non conoscere la ragazza ma soprattutto – benché avesse con sé le chiavi – di non aver aperto la porta pur avendo le chiavi”.
Secondo la ricostruzione dei carabinieri “la vittima arriva in via Poma tra le 15,40 e 15,50 in quel momento in portineria non c’è nessuno perché Pietro Vanacore è andato a fare la sua terapia per la schiena. Tra le 17,50 e le 18,15 Mario Vanacore (il figlio, ndr) di iniziativa, per averlo già fatto in precedenti occasioni o su suggerimento di Pietrino o di Giuseppa, con le chiavi da essi regolarmente possedute si reca presso gli uffici dell’Aiag munito di agenda telefonica per effettuare gratuitamente delle interurbane a Torino, Cantù, o altrove confidando che gli uffici siano vuoti. Una volta dentro, l’uomo si trova davanti Simonetta Cesaroni. A quel punto, intenzionato ad abusare della ragazza, sola in quegli uffici vuoti, verosimilmente sotto minaccia, la costringe nella stanza del direttore Carboni (in ferie, ndr) che aveva le tapparelle abbassate. Dopo aver chiuso la porta della stanza la obbliga a spogliarsi. Parzialmente nuda, Simonetta Cesaroni prova a ribellarsi, e afferra quella che sarà l’arma del delitto. O impugnandola perché era alla sua portata o sottraendola momentaneamente all’uomo e lo colpisce ferendolo. A quel punto l’uomo reagisce, sferrandole un violento colpo al viso che la stordisce e la fa cadere a terra. L’uomo si impossessa dell’arma del delitto e postosi a cavalcioni della ragazza supina a terra la colpisce per 29 volte”. Fin qui l’ipotesi dei carabinieri.
“Si tratta di una mera congettura per ciò che mi riguarda”, spiega il giornalista di inchiesta Igor Patruno, uno dei massimi esperti sul caso. “Il punto fondamentale del ragionamento che fanno i carabinieri sembrerebbe basarsi sul comportamento dei coniugi Vanacore che a mio avviso può essere spiegato diversamente. Ma soprattutto non si capisce perché Mario Vanacore avrebbe dovuto uccidere. Una ipotesi del genere venne fatta dai consulenti di parte della difesa di Federico Valle, i quali sostennero che il sangue trovato sulla porta potesse avere lo stesso assetto allelico di quello rinvenuto sul telefono sulla traccia ematica rinvenuta sul telefono. Peccato che mentre la traccia sulla porta apparteneva certamente ad un soggetto maschile, di quella sul telefono non se ne conosce il genere. Ovvero, non sappiamo se appartenga ad un soggetto maschile o femminile perché non è stato cercato il cromosoma Y”.