Non sono un fan del partito di Giorgia Meloni, di cui non condivido pressoché nulla: né sul piano programmatico né sul piano dell’ideologia (ideologia nazional-populista di cui, qui e altrove, segnalo spesso le analogie con quella fascista). Tuttavia la presidente del Consiglio si sta rivelando, tra le persone oggi impegnate ai vertici della politica, la più capace nell’intercettare gli umori e le simpatie dell’italiano medio, noto per essere conservatore sul piano dei diritti e trasgressore sul piano dei doveri. I risultati elettorali e i sondaggi ne sono una dimostrazione. Meloni usa le armi della dialettica – a cavallo tra social network, mass media e aule parlamentari – nel modo caro a Marco Fabio Quintiliano, oratore latino e maestro di retorica (35/40 dC – 96). Duemila anni fa quelle armi erano paragonate da Quintiliano alle “mosse di scuola” insegnate dai maestri di lotta: le insegnavano non perché l’allievo le usasse tutte insieme al momento del combattimento, ma perché potesse disporre dei mezzi necessari per ogni occasione.
È quello che la premier sa fare molto bene. Sul piano dei programmi e delle soluzioni la leader di FdI non prospetta granché (a parte qualche provvedimento da palcoscenico e qualcun altro a tutela degli abbienti rispetto a chi possiede poco o niente). Però è abilissima – quando interviene in ambienti istituzionali, come la conferenza stampa di inizio 2024 – nel suscitare una forma di simpatia persino tra chi non la vota. Insomma, dà lezioni di retorica e di dialettica politica a tutti gli altri attuali leader (di maggioranza e d’opposizione). Come? Mostrandosi di governo e di lotta, di maggioranza e di opposizione, donna-mamma e donna-padre “con gli attributi” (tanto per citare un luogo comune maschilista), femmina e maschio (non a caso ha preteso di essere chiamata IL presidente) e via elencando. Diciamo che Meloni sa trasmettere bene quello che vuole inculcare nelle teste degli italiani, dove ha sostituito, per esempio, la parola “Stato” o “Repubblica” con “Nazione”. Contemporaneamente riesce a mascherare altrettanto bene ciò che non vuole che gli elettori comprendano: cioè, i programmi deboli ma sicuramente autocratici in campo politico ed economico e il legame ideologico con l’eredità post-fascista (infatti si imbufalisce con i camerati incapaci di non esibire pubblicamente i simboli del Ventennio littorio).
La Giorgia Meloni genuina semmai la vediamo quando interviene nei consessi politici di FdI o degli alleati, in particolare quelli esteri. Per esempio, è stata una vera lezione di retorica fascistoide il suo intervento, svolto alcuni mesi fa, durante una manifestazione del partito post-franchista spagnolo Vox; quando urlando e ringhiando ha proclamato in spagnolo: “Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy italiana, soy cristiana!!!”. In queste ultime occasioni persino l’estrema plasticità delle espressioni e le variazioni del tono di voce ricordano la versione femminile dello stile del bisnonno politico, Benito Mussolini. Però quel genere di esibizioni è riservato ai militanti doc del partito e ai gerarchi sotto mentite spoglie (quelli che adorano le armi vere, che custodiscono in casa i busti del Duce e che fanno i saluti romani). Quando appare in contesti pubblici sfodera la versione rassicurante e – checché ne dicano gli oppositori in Parlamento – funziona.
Le parabole politiche di vari partiti negli ultimi decenni, passati da percentuali prodigiose – si pensi a Forza Italia, poi a Pd, M5S e Lega (ora tocca a FdI) – a percentuali dimezzate o peggio, lasciano ipotizzare un tramonto anche per il partito di Meloni? Forse. Sebbene la sua leader sia ancora molto giovane, stare al governo logora chiunque, soprattutto di fronte a un elettorato dimezzato – quasi la metà degli aventi diritto non vota più – che oggi ragiona prevalentemente in modo volatile e non-analitico, seguendo più i ritmi dei social che quelli della riflessione. Tuttavia per ora (e forse ancora per qualche anno) sul piano retorico sta vincendo Giorgia Meloni, a destra e a manca. Chi vuole competere con lei deve, certo, proporre contenuti concreti (cosa che lei abilmente non fa), ma deve riuscire anche a spiegarsi in modo comprensibile. Invece altrove manca quasi del tutto un/una leader con quelle caratteristiche e con quella capacità meloniana di evocare, grazie a un linguaggio comprensibile e intelligentemente emotivo, i sentimenti prima ancora delle idee, trascurando i contenuti per privilegiare gli slogan “piacioni”.
Oggi, soprattutto a sinistra (area in cui per comodità qui voglio includere pure il Movimento 5 Stelle), mancano molti contenuti e manca anche la capacità di comunicare al cosiddetto “popolo” quegli eventuali contenuti. Meloni avrà una marcia in più finché chi si propone come alternativa al suo governo non imparerà di nuovo a convincere la gente in modo comprensibile e, appunto, emotivo, possibilmente senza spacciare le lucciole per lanterne.
Per non parlare del fatto che, pur ipotizzando una eventuale débâcle meloniana (paragonabile a quella di altri partiti precipitati negli ultimi anni dalla cresta dell’onda), vale sempre il noto detto: “Non c’è limite al peggio”. A sinistra (in senso lato) i leader dovrebbero prima fare autocritica per le loro carenze e poi attrezzarsi – politicamente, programmaticamente, dialetticamente e retoricamente – per competere, nelle piazze reali e virtuali, con gli avversari di oggi e con quelli del futuro. E dovrebbero farlo, se possibile, alla svelta.