di Davide Trotta*

Il caso di Chiara Ferragni può insegnare qualcosa se lo collochiamo all’interno di uno contesto storico-culturale più ampio, cioè quello di un Paese assuefatto, se non narcotizzato dalle balle sesquipedali propinate nel corso dei lustri da classi politiche in grado di miscelare con sapiente equilibrio incompetenza e disonestà: binomio evidentemente destinato a sorti poco gloriose, se si guarda all’infelice condizione in cui da tempo versa il nostro Paese.

Proprio da tale binomio, e in assenza di forze incisive sullo scenario politico-culturale, trae linfa la narrazione della Ferragni i cui innumerevoli followers sembrano la versione 2.0 dei seguaci di chi riusciva a moltiplicare pani e pesci, ora divenuti pandori: insomma una Messia dei social, tessuto necrotizzato di una società priva di punti di riferimento e quindi rivolta verso idoli abili a costruire su diffusi strati di miseria e ignoranza i propri magnifici destini. Per eccesso si potrebbe azzardare la definizione di “dittature” dei social, certo non violente, eppur capaci di orientare e forzare in determinate direzioni pensieri e opinioni comuni, con l’ignara connivenza della politica. Lancia in resta è stata la nostra Premier a scagliarsi contro la Ferragni, trattata a mo’ di Shlein o di Conte, così iniettandole un’ulteriore dose di prestigio o almeno risonanza.

Ma in fin dei conti i talora vituperati influencer si rivelano acuti scolari cresciuti sotto la prospera mammella dei politici, i primi influencer ante litteram, capaci di spostare con televisioni e mezzi di comunicazioni consensi elettorali titillati da promesse generalmente non mantenute. Inevitabile la tentazione di intravedere nei pandori erranti della Ferragni antiche e nuove promesse raramente sigillate dai politici. Dunque la politica, perlopiù ridotta al servizio di conti correnti saturi e poltrone lustre di buona parte della classe dirigente, pare non comprendere che gli influencer altro non sono che zelanti studenti presso maestri così prodighi di insegnamenti che infine si sono lasciati superare. Dunque nel politico rabdomante di voti è difficile non scorgere il “tic” di chi vede in quei followers potenziali elettori.

Ed ecco che i maestri si mettono saggiamente in competizione con gli allievi per riprendersi ciò che è sempre stato una loro prerogativa, insomma “monopolio di stato”. Ma agli italiani, sospesi tra tagli di cunei fiscali e timidi aumenti salariali, comunque inadeguati rispetto all’inflazione, non sfugge che in questo gioco delle parti a spartirsi il pandoro risultano sempre gli stessi, padri e figli della stessa (sub)cultura.

*insegnante

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