Corre oggi il terzo anniversario di quella che – del tutto correttamente da un punto di vista storico, ma in modo assolutamente erroneo da un punto di vista politico – venne a suo tempo dai più definita, con stupefatti accenti, una “aberrazione”. Stiamo ovviamente parlando dell’assalto a Capitol Hill, consumatosi in mondovisione, per quattro lunghe ore, il 6 gennaio dell’anno del Signore 2021.
Quel giorno – come tutti certamente ricorderanno – migliaia di manifestanti pro-Trump fecero violenta irruzione nella sede del Congresso, innalzando vessilli e sventolando bandiere che inneggiavano al presidente in quel mentre ancora formalmente in carica, ma già condannato dal verdetto delle urne. Il tutto con un dichiarato e molto specifico obiettivo: impedire che deputati e senatori formalmente ratificassero, come previsto dalla Costituzione, i risultati delle elezioni presidenziali svoltesi due mesi prima. Mai, prima d’allora, era accaduta una cosa simile. Mai, nel corso del quasi quarto di millennio più o meno gloriosamente trascorso da quel fatidico 4 luglio 1776, venerato giorno della Indipendenza, un candidato sconfitto aveva, negli Usa, rifiutato d’accettare l’esito delle elezioni. E ancor meno, ovviamente, aveva tentato d’impedire con la forza la nomina del rivale vincitore. Il che evidentemente basta (e avanza) per canonicamente definire – Zingarelli in una mano e un qualsivoglia manuale di Storia nell’altra – come anormale, anomalo, assurdo e riprovevole quanto accaduto in quella gelida mattinata di tre anni or sono.
E tuttavia altrettanto certo è che quegli eventi tanto storicamente aberranti sono oggi (e furono anche allora, come inequivocabilmente confermato da quel che ne è seguito) parte d’una ormai acquisita quotidianità politica, il riflesso d’una consolidata normalità che, se di certo – e proprio perché “normale” – rimane più che mai “riprovevole” e inquietante, di fatto cancella ogni “aberrazione”. Più semplicemente: il 6 gennaio 2021, la sua ragion d’essere e i suoi obiettivi, sono oggi non l’eccezione, ma la regola: un permanente, ineludibile – il principale per molti versi – aspetto della dialettica politica americana. Più ancora: il 6 gennaio 2021 è oggi – e tale presumibilmente resterà per parecchio tempo, con conseguenze ancora tutte da calcolare per gli Usa e per il mondo – la più fedele rappresentazione del modo d’essere di quella che, nella molto rigida logica bipolare della democrazia Usa, è una delle due metà del sistema: il Partito Repubblicano, o Grand Old Party (GOP), un tempo noto come il partito di Abraham Lincoln.
Che cosa accadde, tre anni fa, in quel di Washington D.C.? Per quale motivo, in che modo, una simile aberrazione è diventata regola? E soprattutto: quali saranno le conseguenze di questa regola? Rispondere alla prima domanda è molto facile. Paradossalmente facile. Basta infatti, per redigere il più completo e implacabile j’accuse contro l’uomo che di quell’assalto fu l’ispiratore e l’organizzatore (Donald J. Trump, nel caso qualcuno sentisse la necessità della precisazione), ripetere le parole che di fatto, nei giorni convulsi che seguirono l’assalto a Capitol Hill, scandirono la sentenza che quel “colpevole” assolse – e assolse “per aver commesso il fatto”, primo caso, probabilmente, nella storia giuridica dell’universo mondo – al termine d’un processo di impeachment “postumo”.
Questo, infatti, fu quel che disse allora il capo della maggioranza repubblicana nel Senato, Mitch McConnell, nell’annunciare il voto contrario suo e di tutti i repubblicani (alla fine il risultato fu di 43 per l’assoluzione contro 57 per la condanna, non molto al di sotto dei due terzi necessari). “…Non v’è nessun dubbio, assolutamente nessuno – affermó McConnell – che su Donald Trump gravi la responsabilità, pratica e morale, d’aver provocato gli eventi del 6 gennaio… Donald Trump è colpevolmente e vergognosamente venuto meno ai doveri a lui imposti dalla carica che ricopriva… Anziché fermare l’assalto che lui stesso aveva provocato, Donald Trump ha, al contrario, allegramente – allegramente! – rimirato gli eventi in tv mentre montavano il caos e la violenza… Quando le orde che sventolavano bandiere con il suo nome e che nel suo nome erano convinte d’agire già avevano invaso Capitol Hill, e quando già a tutti era chiaro che la vita di Mike Pence (il vice presidente, sul quale cadeva il cerimoniale obbligo di dichiarare la vittoria di Joe Biden, nda) era in pericolo, Donald Trump ha continuato ad emettere proclami via Twitter contro il suo vice presidente (colpevole di non avere assecondato i suoi fraudolenti piani di capovolgimento dei risultati elettorali, nda)…”.
Nessuno, mai – neppure i suoi assolutori – ha seriamente potuto negare le responsabilità di Donald Trump nell’assalto a Capitol Hill. Lui aveva convocato la manifestazione. Lui aveva arringato la folla (tra le dieci e le trentamila persone, secondo la polizia di Washington, oltre un milione secondo Trump) invitandola a “to fight like hell” (a scatenare l’inferno, volendo ricorrere alla più famosa delle battute del film Il Gladiatore). E lui – “se non scatenerete l’inferno cesserà d’esistere il paese chiamato America” – aveva infine, con accenti apocalittici, illustrato le ragioni di quella che non poteva che essere una battaglia senza quartiere e senza prigionieri. Lui, Donald Trump, s’era rifiutato d’intervenire mentre le orde da lui convocate – e per lo più composte dalle più fanatiche, violente, razziste e antisemite componenti della “supremazia bianca” – percorrevano i corridoi del Congresso. E quando, dopo molte ore, compresa l’impossibilità di capovolgere l’esito delle elezioni, Trump aveva infine invitato quelle orde a terminare l’assalto, l’aveva fatto non in forma di condanna, ma di benedizione. “Vi amiamo – aveva detto in un molto enfatico plurale maiestatis – siete per noi gente speciale… grandi patrioti… Tornate alle vostre case in amore e in pace. E ricordate per l’eternità questo giorno…”.
E qui viene la risposta alla seconda domanda. In che modo – oggi, tre anni dopo – l’America ricorda quel giorno? Giusto due giorni fa, un sondaggio commissionato dal Washington Post alla Università del Maryland ha, in un susseguirsi di dati non sempre di facile lettura, sostanzialmente rivelato memorie alquanto sbiadite e, in molti casi, orrendamente deformate, in termini grottescamente cospirativi, di quel che accadde allora. Sbiadite e deformate appaiono quelle memorie, soprattutto se valutate alla luce degli eventi che a quell’allora hanno fatto seguito.
Molte cose – cose ancora una volta “aberranti”, nel senso di mai prima vissute – sono accadute in questi tre anni negli Usa. In un paese dove mai, in quasi 250 anni di vita democratica, un presidente o ex presidente era stato oggetto di imputazioni criminali, Donald ne ha accumulate la bellezza di 91, molte delle quali, per l’appunto, relative alla “insurrezione” del 6 gennaio 2021 e al tentativo di capovolgere fraudolentemente l’esito delle presidenziali del novembre 2020. Il tutto per un potenziale – anche se ovviamente improbabile – totale di 616 anni di carcere. E all’atto pratico con un unico, inequivocabile e irreversibile effetto politico: il consolidarsi del processo di trumpizzazione del Partito Repubblicano.
Donald J. Trump è oggi più che mai padrone del GOP. La stagione delle primarie – che tra pochi giorni comincerà nello Stato dello Iowa – lo vede partire con un vantaggio (oltre 50 punti) che solo qualche miracoloso evento potrebbe a questo punto annullare. Trump sarà il prossimo candidato repubblicano. E lo sarà non “malgrado” le sue ovvie responsabilità nella “insurrezione” del 6 gennaio di tre anni fa, ma in virtù di quelle responsabilità. Non a dispetto delle sue attitudini antidemocratiche, ma grazie a quelle sempre più manifeste attitudini.
Le cronache di queste settimane ci raccontano d’un Trump che sempre più lascivamente e cupamente s’abbandona, comizio dopo comizio, al più classico e tetro lessico fascista. D’un Trump che definisce “parassiti da sradicare per sempre” i suoi rivali democratici, che lancia anatemi contro i magistrati che lo stanno processando e contro gli immigrati che “avvelenano il sangue” della Nazione. E ci dicono anche, quelle cronache, come proprio queste sono, comizio dopo comizio, le parole che più eccitano le folle che lo seguono. Tra un anno – cosa per nulla scontata, ma alla luce dei sondaggi più che possibile – il quarto anniversario dell’“aberrante” assalto a Capitol Hill potrebbe esser celebrato da un Trump “president-elect” pronto a tornare alla Casa Bianca. E a tornare, dopo aver perdonato se stesso, nella sua più cupa e sgangherata versione di angelo vendicatore.
Il prossimo novembre – a riprova d’una sempre più ovvia spaccatura tra il sistema democratico e quello che va sotto il nome di “paese reale” – l’America sarà costretta a (ri)vivere, in un nuovo scontro tra contrapposte impopolarità, un’esperienza che tutti i sondaggi rivelano come assolutamente aborrita da una ampia maggioranza dell’elettorato: il “remake”, la rivincita (o la riperdita) dello scontro tra Donald Trump e Joe Biden. E proprio questo – andando al cuore del problema – è quel che oggi, tre anni dopo il 6 gennaio 2021, impietosamente ci dicono i fatti. L’assalto alla democrazia continua. Continua come un fisso, cronico elemento della vita politica americana. E continua, a tutti gli effetti, con più che concrete possibilità di vittoria.
Massimo Cavallini
Giornalista
Mondo - 6 Gennaio 2024
Capitol Hill, l’aberrazione è divenuta regola: l’assalto alla democrazia continua. E può vincere
Corre oggi il terzo anniversario di quella che – del tutto correttamente da un punto di vista storico, ma in modo assolutamente erroneo da un punto di vista politico – venne a suo tempo dai più definita, con stupefatti accenti, una “aberrazione”. Stiamo ovviamente parlando dell’assalto a Capitol Hill, consumatosi in mondovisione, per quattro lunghe ore, il 6 gennaio dell’anno del Signore 2021.
Quel giorno – come tutti certamente ricorderanno – migliaia di manifestanti pro-Trump fecero violenta irruzione nella sede del Congresso, innalzando vessilli e sventolando bandiere che inneggiavano al presidente in quel mentre ancora formalmente in carica, ma già condannato dal verdetto delle urne. Il tutto con un dichiarato e molto specifico obiettivo: impedire che deputati e senatori formalmente ratificassero, come previsto dalla Costituzione, i risultati delle elezioni presidenziali svoltesi due mesi prima. Mai, prima d’allora, era accaduta una cosa simile. Mai, nel corso del quasi quarto di millennio più o meno gloriosamente trascorso da quel fatidico 4 luglio 1776, venerato giorno della Indipendenza, un candidato sconfitto aveva, negli Usa, rifiutato d’accettare l’esito delle elezioni. E ancor meno, ovviamente, aveva tentato d’impedire con la forza la nomina del rivale vincitore. Il che evidentemente basta (e avanza) per canonicamente definire – Zingarelli in una mano e un qualsivoglia manuale di Storia nell’altra – come anormale, anomalo, assurdo e riprovevole quanto accaduto in quella gelida mattinata di tre anni or sono.
E tuttavia altrettanto certo è che quegli eventi tanto storicamente aberranti sono oggi (e furono anche allora, come inequivocabilmente confermato da quel che ne è seguito) parte d’una ormai acquisita quotidianità politica, il riflesso d’una consolidata normalità che, se di certo – e proprio perché “normale” – rimane più che mai “riprovevole” e inquietante, di fatto cancella ogni “aberrazione”. Più semplicemente: il 6 gennaio 2021, la sua ragion d’essere e i suoi obiettivi, sono oggi non l’eccezione, ma la regola: un permanente, ineludibile – il principale per molti versi – aspetto della dialettica politica americana. Più ancora: il 6 gennaio 2021 è oggi – e tale presumibilmente resterà per parecchio tempo, con conseguenze ancora tutte da calcolare per gli Usa e per il mondo – la più fedele rappresentazione del modo d’essere di quella che, nella molto rigida logica bipolare della democrazia Usa, è una delle due metà del sistema: il Partito Repubblicano, o Grand Old Party (GOP), un tempo noto come il partito di Abraham Lincoln.
Che cosa accadde, tre anni fa, in quel di Washington D.C.? Per quale motivo, in che modo, una simile aberrazione è diventata regola? E soprattutto: quali saranno le conseguenze di questa regola? Rispondere alla prima domanda è molto facile. Paradossalmente facile. Basta infatti, per redigere il più completo e implacabile j’accuse contro l’uomo che di quell’assalto fu l’ispiratore e l’organizzatore (Donald J. Trump, nel caso qualcuno sentisse la necessità della precisazione), ripetere le parole che di fatto, nei giorni convulsi che seguirono l’assalto a Capitol Hill, scandirono la sentenza che quel “colpevole” assolse – e assolse “per aver commesso il fatto”, primo caso, probabilmente, nella storia giuridica dell’universo mondo – al termine d’un processo di impeachment “postumo”.
Questo, infatti, fu quel che disse allora il capo della maggioranza repubblicana nel Senato, Mitch McConnell, nell’annunciare il voto contrario suo e di tutti i repubblicani (alla fine il risultato fu di 43 per l’assoluzione contro 57 per la condanna, non molto al di sotto dei due terzi necessari). “…Non v’è nessun dubbio, assolutamente nessuno – affermó McConnell – che su Donald Trump gravi la responsabilità, pratica e morale, d’aver provocato gli eventi del 6 gennaio… Donald Trump è colpevolmente e vergognosamente venuto meno ai doveri a lui imposti dalla carica che ricopriva… Anziché fermare l’assalto che lui stesso aveva provocato, Donald Trump ha, al contrario, allegramente – allegramente! – rimirato gli eventi in tv mentre montavano il caos e la violenza… Quando le orde che sventolavano bandiere con il suo nome e che nel suo nome erano convinte d’agire già avevano invaso Capitol Hill, e quando già a tutti era chiaro che la vita di Mike Pence (il vice presidente, sul quale cadeva il cerimoniale obbligo di dichiarare la vittoria di Joe Biden, nda) era in pericolo, Donald Trump ha continuato ad emettere proclami via Twitter contro il suo vice presidente (colpevole di non avere assecondato i suoi fraudolenti piani di capovolgimento dei risultati elettorali, nda)…”.
Nessuno, mai – neppure i suoi assolutori – ha seriamente potuto negare le responsabilità di Donald Trump nell’assalto a Capitol Hill. Lui aveva convocato la manifestazione. Lui aveva arringato la folla (tra le dieci e le trentamila persone, secondo la polizia di Washington, oltre un milione secondo Trump) invitandola a “to fight like hell” (a scatenare l’inferno, volendo ricorrere alla più famosa delle battute del film Il Gladiatore). E lui – “se non scatenerete l’inferno cesserà d’esistere il paese chiamato America” – aveva infine, con accenti apocalittici, illustrato le ragioni di quella che non poteva che essere una battaglia senza quartiere e senza prigionieri. Lui, Donald Trump, s’era rifiutato d’intervenire mentre le orde da lui convocate – e per lo più composte dalle più fanatiche, violente, razziste e antisemite componenti della “supremazia bianca” – percorrevano i corridoi del Congresso. E quando, dopo molte ore, compresa l’impossibilità di capovolgere l’esito delle elezioni, Trump aveva infine invitato quelle orde a terminare l’assalto, l’aveva fatto non in forma di condanna, ma di benedizione. “Vi amiamo – aveva detto in un molto enfatico plurale maiestatis – siete per noi gente speciale… grandi patrioti… Tornate alle vostre case in amore e in pace. E ricordate per l’eternità questo giorno…”.
E qui viene la risposta alla seconda domanda. In che modo – oggi, tre anni dopo – l’America ricorda quel giorno? Giusto due giorni fa, un sondaggio commissionato dal Washington Post alla Università del Maryland ha, in un susseguirsi di dati non sempre di facile lettura, sostanzialmente rivelato memorie alquanto sbiadite e, in molti casi, orrendamente deformate, in termini grottescamente cospirativi, di quel che accadde allora. Sbiadite e deformate appaiono quelle memorie, soprattutto se valutate alla luce degli eventi che a quell’allora hanno fatto seguito.
Molte cose – cose ancora una volta “aberranti”, nel senso di mai prima vissute – sono accadute in questi tre anni negli Usa. In un paese dove mai, in quasi 250 anni di vita democratica, un presidente o ex presidente era stato oggetto di imputazioni criminali, Donald ne ha accumulate la bellezza di 91, molte delle quali, per l’appunto, relative alla “insurrezione” del 6 gennaio 2021 e al tentativo di capovolgere fraudolentemente l’esito delle presidenziali del novembre 2020. Il tutto per un potenziale – anche se ovviamente improbabile – totale di 616 anni di carcere. E all’atto pratico con un unico, inequivocabile e irreversibile effetto politico: il consolidarsi del processo di trumpizzazione del Partito Repubblicano.
Donald J. Trump è oggi più che mai padrone del GOP. La stagione delle primarie – che tra pochi giorni comincerà nello Stato dello Iowa – lo vede partire con un vantaggio (oltre 50 punti) che solo qualche miracoloso evento potrebbe a questo punto annullare. Trump sarà il prossimo candidato repubblicano. E lo sarà non “malgrado” le sue ovvie responsabilità nella “insurrezione” del 6 gennaio di tre anni fa, ma in virtù di quelle responsabilità. Non a dispetto delle sue attitudini antidemocratiche, ma grazie a quelle sempre più manifeste attitudini.
Le cronache di queste settimane ci raccontano d’un Trump che sempre più lascivamente e cupamente s’abbandona, comizio dopo comizio, al più classico e tetro lessico fascista. D’un Trump che definisce “parassiti da sradicare per sempre” i suoi rivali democratici, che lancia anatemi contro i magistrati che lo stanno processando e contro gli immigrati che “avvelenano il sangue” della Nazione. E ci dicono anche, quelle cronache, come proprio queste sono, comizio dopo comizio, le parole che più eccitano le folle che lo seguono. Tra un anno – cosa per nulla scontata, ma alla luce dei sondaggi più che possibile – il quarto anniversario dell’“aberrante” assalto a Capitol Hill potrebbe esser celebrato da un Trump “president-elect” pronto a tornare alla Casa Bianca. E a tornare, dopo aver perdonato se stesso, nella sua più cupa e sgangherata versione di angelo vendicatore.
Il prossimo novembre – a riprova d’una sempre più ovvia spaccatura tra il sistema democratico e quello che va sotto il nome di “paese reale” – l’America sarà costretta a (ri)vivere, in un nuovo scontro tra contrapposte impopolarità, un’esperienza che tutti i sondaggi rivelano come assolutamente aborrita da una ampia maggioranza dell’elettorato: il “remake”, la rivincita (o la riperdita) dello scontro tra Donald Trump e Joe Biden. E proprio questo – andando al cuore del problema – è quel che oggi, tre anni dopo il 6 gennaio 2021, impietosamente ci dicono i fatti. L’assalto alla democrazia continua. Continua come un fisso, cronico elemento della vita politica americana. E continua, a tutti gli effetti, con più che concrete possibilità di vittoria.
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Roma, 2 gen. (Adnkronos) - "È quello che abbiamo chiesto. Ma capire è una parola inutile. Io non capisco niente e chi ci capisce è bravo. Si chiede, si fa e si combatte per ottenere rispetto. Capire no, mi spiace. Magari, capire qualcosa mi piacerebbe". Lo dice Elisabetta Vernoni, madre di Cecilia Sala, dopo l'incontro con la premier Giorgia Meloni a palazzo Chigi ai cronisti che le chiedono se la giornalista potrà avere altre visite da parte dell'ambasciata.
Roma, 2 gen. (Adnkronos) - Nella telefonata di ieri "avrei preferito notizie più rassicuranti da parte sua e invece le domande che ho fatto... glielo ho chiesto io, non me lo stava dicendo, le ho chiesto se ha un cuscino pulito su cui appoggiare la testa e mi ha detto 'mamma, non ho un cuscino, né un materasso'". Lo dice Elisabetta Vernoni, madre di Cecilia Sala, dopo l'incontro con la premier Giorgia Meloni a palazzo Chigi.
Roma, 2 gen. (Adnkronos) - "No, dopo ieri nessun'altra telefonata". Lo dice Elisabetta Vernoni, madre di Cecilia Sala, ai cronisti dopo l'incontro a palazzo Chigi con la premier Giorgia Meloni. "Le telefonate non sono frequenti. E' stata la seconda dopo la prima in cui mi ha detto che era stata arrestata, poi c'è stato l'incontro con l'ambasciatrice, ieri è stato proprio un regalo inaspettato. Arrivano così inaspettate" le telefonate "quando vogliono loro. Quindi io sono lì solo ad aspettare".
Roma, 2 gen. (Adnkronos) - "Questo incontro mi ha fatto bene, mi ha aiutato, avevo bisogno di guardarsi negli occhi, anche tra mamme, su cose di questo genere...". Lo dice Elisabetta Vernoni, madre di Cecilia Sala, lasciando palazzo Chigi dopo l'incontro con la premier Giorgia Meloni.
Roma, 2 gen. (Adnkronos) - "Cerca di essere un soldato Cecilia, cerco di esserlo io. Però le condizioni carcerarie per una ragazza di 29 anni, che non ha compiuto nulla, devono essere quelle che non la possano segnare per tutta la vita". Lo dice Elisabetta Vernoni, madre di Cecilia Sala, dopo l'incontro con la premier Giorgia Meloni a palazzo Chigi.
"Poi se pensiamo a giorni o altro... io rispetto i tempi che mi diranno, ma le condizioni devono essere quelle di non segnare una ragazza che è solo un'eccellenza italiana, non lo sono solo il vino e i cotechini". Le hanno detto qualcosa sui tempi? "Qualche cosa - ha risposto -, ma cose molto generiche, su cui adesso certo attendo notizie più precise".
Roma, 2 gen. (Adnkronos) - "La prima cosa sono condizioni più dignitose di vita carceraria e poi decisioni importanti e di forza del nostro Paese per ragionare sul rientro in Italia, di cui io non piango, non frigno e non chiedo tempi, perché sono realtà molto particolari". Lo ha detto Elisabetta Vernoni, mamma di Cecilia Sala, dopo l'incontro a palazzo Chigi con la premier Giorgia Meloni.
Roma, 2 gen. (Adnkronos) - "Adesso, assolutamente, le condizioni carcerarie di mia figlia". Lo dice Elisabetta Vernoni, madre di Cecilia Sala, dopo l'incontro con la premier Giorgia Meloni a palazzo Chigi ai cronisti che le chiedono quali siano le sua maggiori preoccupazioni. "Lì non esistono le celle singole, esistono le celle di detenzione per i detenuti comuni e poi le celle di punizione, diciamo, e lei è in una di queste evidentemente: se uno dorme per terra, fa pensare che sia così...".