di Carmelo Zaccaria

Il pudore, come la riservatezza, è un sentimento che la natura ci ha messo a disposizione per difenderci da situazioni emotive percepite come oscure o sgradevoli, che non riusciamo ad accettare, che turbano la nostra sensibilità. Tuttavia nell’epoca di internet è difficile respingere o solamente resistere all’ingombrante diluvio di scene o immagini che irrompono improvvise e spiazzanti nella nostra vita, e a cui inconsapevolmente ci concediamo, forzando il limite di ciò che riteniamo essere giusto e tollerabile.

Nell’immenso palcoscenico del web vige il principio che quanto più ci si esibisce, tanto più ci si sente realizzati e valorosi per cui, nella realtà, il comune senso del pudore è completamente sparito, e insieme ad esso quel collante valoriale fondato anche sulla discrezione che custodiva il pilastro portante di ogni processo formativo. Una volta rotti i freni inibitori, i rapporti sociali si sono trasformati in un marasma avvolgente in cui ognuno è legittimato a spararla sempre più grossa o a mostrarsi in pose spesso esagerate e sfacciate. Il filosofo Umberto Galimberti fa derivare il termine vergogna direttamente da “vereor gognam”, cioè temo la gogna, l’esposizione. Proprio perché l’esposizione non la si teme più, la vergogna ha perso la sua rilevanza sociale, non essendo più un sentimento attrattivo. Tutto è palese, tutto è sempre opportuno. Ognuno si comporta come meglio crede ricavandone un irresistibile godimento, amplificato dalla potenza spropositata di Internet. Sparita la vergogna si concede il proprio corpo al mondo e quindi si decolora sia il corpo, sia il mondo.

Nella fiaba invece, anche quando vengono a galla comportamenti vanitosi o superbi, alla fine questi sono sempre censurati e condannati; nessuna personalità disturbata, che sobilla, che si esalta, senza provare neppure un briciolo di vergogna, può risultare vincente. I bambini si appassionano alle azioni temerarie compiute dai loro eroi soltanto se non appaiono supponenti e se non feriscono la sensibilità degli altri. Nella fiaba il tarlo dell’esibizionismo è attentamente controllato. Viene sanzionata la vanità crudele della matrigna di Biancaneve che guardandosi allo specchio rinnova un quesito malevolo e irritante, mentre in Cenerentola viene sottolineata la semplicità, la mitezza come fondamento su cui poggia il suo desiderio di riuscire nella vita.

La favola di Cenerentola racconta appunto come non sia necessario sgomitare in modo impudente per emergere nella vita, laddove parrebbe sufficiente affidarsi ad un pizzico di pazienza e di accortezza, ed essere animati da una grande forza di volontà e determinazione. Piena di fiducia e senza timore, la fanciulla si veste e si trucca per andare al ballo dove spera di incontrare il principe azzurro, decisa a conquistare l’amore, ma lo fa senza dare nell’occhio, senza tante smancerie o posture leziose, lavora con intelligenza, si muove sottotraccia per realizzare il suo sogno e fare in modo che questo sogno sia impagabile, duraturo e non effimero. Crede veramente in questo proposito e lo persegue con dignità, senza eccessi e senza calpestare qualcuno, sottraendosi allo schiamazzo pubblico e ai pettegolezzi della gente, anzi trasformando la gelosia e l’invidia delle sorelle e della madre, che la umiliano e maltrattano incessantemente, in ammirazione per il suo fascino e la sua eleganza. La sua forza interiore, la sua tenacia, alla fine vengono premiate.

Il bambino che ascolta la fiaba si nutre della grandezza di questo comportamento, si sente rassicurato e percepisce che il vero riscatto si manifesta solo quando riesci ad affermarti senza esagerazioni e senza odiare nessuno, diversamente da ciò che si apprende dal web dove la nobiltà del sogno si infrange contro il dilagare di una furiosa competizione. Cenerentola perdona le sorellastre e le fa vivere accanto a lei felici e contente. Se alla fine non mena vanto per la sua impresa, se non è malvagia e spocchiosa, anche il bambino non lo sarà.

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