Continuano a venir fuori indiscrezioni agghiaccianti sul delitto di via Poma. Secondo un’informativa dei carabinieri, di cui abbiamo pubblicato il contenuto nelle sue parti essenziali, l’assassino di Simonetta Cesaroni sarebbe Mario Vanacore, il figlio del portiere dello stabile in cui c’erano gli uffici delll’Aiag (ente che gestiva gli ostelli della gioventù per cui lavorava Simonetta), anche lui indagato per l’omicidio e poi prosciolto. Come già anticipato da FqMagazine, nella relazione di carabinieri dello scorso 25 ottobre, si legge che Mario Vanacore avrebbe provato ad abusare di lei e potrebbero essere sue sia la traccia di sangue di gruppo A lasciata sulla maniglia della porta che quella sul telefono dell’ufficio in cui fu uccisa la ragazza. Peccato che quando fu fatto il raffronto genetico all’epoca, non risultò essere suo quel sangue, già esaminato dalla scientifica.
Oggi l’esame di queste tracce di sangue potrebbe, secondo i carabinieri, dare un esito diverso. Da lì, la ricostruzione di tutti i depistaggi da parte dei coniugi Vanacore. Intanto, la Procura di Roma e la pm Gianfederica Dito hanno deciso di chiedere l’archiviazione dell’inchiesta ritenendo la ricostruzione dei carabinieri “suggestiva” perché non c’è una singola prova contro Vanacore e le tracce di sangue, sì di gruppo A come quello dei Vanacore, a un esame del Dna non hanno mai mostrato nessuna corrispondenza. Vanacore figlio intanto si è dichiarato del tutto estraneo ai fatti. Ha giocato a suo sfavore la reticenza dei coniugi Vanacore (il padre si suicidò nel 2010 nel suo paese di origine il giorno prima di testimoniare nel processo contro il fidanzato di Simonetta Raniero Busco) e questa ritrosia potrebbe aver contribuito a questa ipotesi poi bocciata dalla Procura di Roma.
La giornalista di Mediaset Anna Boiardi ieri nel corso dell’ultima puntata di Quarto Grado, è tornata sulla testimonianza di un’altra donna della stessa età di Simonetta, che ha denunciato di essere stata abusata circa 30 anni fa dall’avvocato Francesco Caracciolo Di Sarno, all’epoca presidente dell’associazione Alberghi della Gioventù per cui lavorava come contabile Simonetta Cesaroni e morto nel 2016. La ragazza all’epoca decise di non denunciare l’avvocato per paura di ritorsioni, versione riportata anche dal fratello, anche lui sentito dal programma di Rete4: “L’avvocato la minacciò che se avesse parlato avrebbe licenziato i miei genitori, che lavoravano per lui”. La donna intanto è stata sentita in Procura che ha aperto un fascicolo su queste dichiarazioni. Quella di Caracciolo di Sarno è sempre stata una figura ambigua e non a caso all’epoca fu soprannominato “l’avvocato dei misteri”. Il legale negò anche di conoscere Simonetta, pur essendo il suo datore di lavoro, malgrado alcune testimonianze affermarono il contrario, sembrò tutto abbastanza assurdo all’epoca dei fatti. Sentito il 21 agosto del 1990, Caracciolo Di Sarno disse di avere un alibi confermato dalla figlia, che accompagnò quel giorno all’aeroporto dalla sua casa di campagna di Tarano, nel Rietino. Un ricostruzione sempre ribadita.
Due anni dopo i fatti, l’11 gennaio del 1991 l’allora ispettore Carmine Belfiore, oggi questore di Roma, firmò un’informativa indirizzata al capo della Digos in cui c’era scritto: “Il giorno del delitto – riferisce la portiera – nell’ora riportata dai media come quella presunta dell’omicidio, l’avvocato sarebbe rientrato affannato e con un pacco mal avvolto, presso la propria abitazione. Subito dopo ne sarebbe uscito portandosi appresso una grossa borsa. Prima di lasciare lo stabile, avrebbe ingiustificatamente attirato l’attenzione della portiera chiedendole che ore fossero e raccontandole che stava per recarsi in aeroporto dove avrebbe dovuto incontrare la figlia”. Di fatto, quest’informativa mostrata ieri da Quarto Grado, sembrerebbe smentire l’alibi. Nell’informativa si legge anche che “l’avvocato sarebbe noto tra gli amici per la dubbia moralità e le reiterate molestie arrecate a giovani ragazze, episodi mai denunciati seppure a conoscenza di molti grazie anche a amicizie influenti dello stesso vantate”.
La portinaia di Caracciolo fu ascoltata solo nel 2005 quando disse che vide l’avvocato uscire dallo stabile alle 17,30 e rientrare alle 18 (ora presunta dell’omicidio) con un uomo mai visto prima, confermando la sua testimonianza ma aggiungendo anche di “non ricordare bene”. Quindi l’avvocato era in campagna in provincia di Rieti come ha sempre dichiarato o a Roma? Il potente avvocato romano non può più rispondere. Troppo tempo è passato e anche la prova del Dna è ormai quasi impossibile da effettuare. Intanto, la Procura di Roma ha aperto un nuovo fascicolo, dopo la denuncia della donna che ha confermato ai magistrati romani le molestie subite e denunciate ai microfoni del programma Mediaset, per cui potrebbero emergere nuovi elementi che dopo tutti questi anni, potrebbero anche far cadere quel muro di omertà grazie al quale l’assassino di via Poma non ha ancora un nome.