“Nel pomeriggio si preparò per andare al lavoro: borsa con i trucchi, lo specchietto, le scarpe con i tacchi alti, preservativi, un coltello da cucina, ovatta imbevuta d’aceto infilata nelle parti intime, cellulare, una bottiglietta d’acqua” è tratto dal libro Il viaggio di Destiny scritto e vissuto da Alfonso Reccia. Siamo sulla costa, a nord di Napoli, oggi.

Via Domitiana è un’arteria di cemento purulento della camorra, una cicatrice d’asfalto che incide Castel Volturno per chilometri. Il sabato mattina puoi vedere sfrecciare una comitiva di ciclisti dalla pelle bianca bardati a festa, colori che sfrecciano per non rallentare su questa strada lurida e retta. Sui finestrini delle macchine si deposita un’aria sudicia, fatta di grasso e polvere che a passare uno straccio è cacao di catrame. Questo respiri. Il resto è campi infetti per braccianti da sfruttare e donne da macelleria sessuale: uomini e donne d’Africa che qui si “ferma un turno” e il turno dopo non arriva mai. Castel Volturno è uno scavo, ma a differenza di Pompei qui turisti non ce n’è. Qui i rifiuti si contendono la strada con lo Stato italiano di abbandono, almeno fino alla prossima Caivano. Castel Volturno è Italia, la certezza che il tuo viaggio può partire da qualunque posto al mondo, ma se arrivi qui almeno qualcosa trovi: la fine.

“L’unica fortuna era che gli incontri, in auto o nel rudere di campagna abbandonato e abitato da mondezza, scarti di campagna, preservativi usati, duravano al massimo dieci minuti. Per ottimizzare i tempi le avevano insegnato a indossare gonne corte, senza mutandine, a far spingere il maschio di turno velocemente… Se fosse trascorso troppo tempo tornare alla stimolazione di bocca, magari senza preservativo, per guadagnare un extra.”

Ma questa è la storia di una speranza, che mescola bianchi e neri. Alfonso Reccia, scrittore documentarista, non si dà pace nel vedere chi è costretta a vendersi a clienti affamati di carne giovane a poco prezzo, vuol sapere perché e in qualche modo decide di avvicinarsi e chiedere a queste ragazze, soprattutto dalla Nigeria, enormità d’Africa che riversa su Castel Volturno l’illusione di un futuro. Sono ragazze disposte a sperare che a loro andrà meglio, che sarà meno peggio di quel che si dice, che basterà un anno o forse due per estinguere il debito col quale la famiglia ti ha permesso di affrontare il viaggio. Ma Alfonso non riesce ad essere credibile agli occhi delle ragazze di strada: chi è questo che non vuole prestazioni ma parlare e offrire aiuto e perché lo fa?

Così ha un’idea, semplice e geniale: preparerà un piatto tipico della loro terra e glielo porterà, chi potrà resistere alla lingua universale del cibo soprattutto quando sei lontano da casa? Alfonso studia e si mette e cucinare, conquistando la fiducia. In altre parole parla la loro lingua attraverso il palato e questa volta la ragazze non lo respingono.

Comincia così la storia della sua Onlus “Street Flowers Relief”, una delle realtà umane che sbocciano in mezzo al vuoto, dove mai penseresti ancora esistere umanità, come i comboniani, i medici di strada, le suore che accolgono ragazze madri figlie della tratta. Alfonso accompagna le ragazze dal ginecologo, da un medico, sulla sua auto, sgangherata sì ma meno della strada, disseta la speranza che qualcosa possa cambiare e qualche volta, non sempre, ci riesce. Ma è quanto basta per andare avanti. Allora Alfonso non solo percorre le vie bucate della malavita, non solo guarda, ma aiuta e soprattutto scrive. Scrive e denuncia, denuncia e scrive, roba buona per le minacce dei suoi “ammiratori”.

Dalla terra d’origine di queste ragazze, e con dettagli a volte da conato, solca le pagine del viaggio, la tratta, i riti voodoo che paralizzano il cervello, le violenze di ogni corruzione, le tappe della violenza, le detenzioni e finalmente l’Italia. Leggo e mi sembra di rivedere “Io capitano” di Matteo Garrone, ma il porto è una vagina esausta dove approda lo sfruttamento. Alfonso Reccia come Matteo Garrone: non è un film.

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