Dopo i record positivi dell’anno scorso (scudetto con l’utile di bilancio più alto della storia del calcio in Italia), il Napoli sta tentando di non farsi mancare nulla per puntare anche al record negativo della peggiore annata della squadra campione in carica della serie A. In questo momento è al nono posto a 20 punti di distanza dall’Inter capolista e potrebbe insidiare, in questa speciale sezione dei primati, la Juventus del 1961-1962 (che terminò al 12° posto a 22 punti dall’Inter) e del 1957-1958 (che si classificò al 13° posto a 24 punti sempre dall’Inter) e il Milan del 1995-1996 (che si piazzò al 10° posto a 16 punti dalla Juventus).

Cosa sta succedendo? Quali sono le cause? Come mai quel modello, definito dal sottoscritto nel libro A scuola da De Laurentiis (Edizioni Ultra) innovativo ed efficiente, sta producendo cattivi risultati sportivi?

Due premesse. Innanzitutto, come abbiamo visto, si tratta di una situazione che può capitare anche nelle “migliori famiglie” di imprenditori (Agnelli e Berlusconi).

In secondo luogo, un modello innovativo ed efficiente non è un paradigma di successo in eterno e sistematicamente perché soprattutto deve tenere conto della continuità e sostenibilità dei risultati: sei mesi di scarsi risultati sportivi e di errori gestionali, riconosciuti dallo stesso Aurelio De Laurentiis (il riconoscimento degli errori è una delle massime espressioni della intelligenza imprenditoriale), su 20 anni di gestione formidabile non sono assolutamente sintomatici di una azienda in crisi.

Ad ogni modo le cause sono da ricercare nella capacità di quel modello di essere adattato, non modificato completamente. Una sintonizzazione necessaria per il futuro.

Storicamente, nella maggior parte dei club nostrani la figura del presidente è stata ricoperta dallo stesso proprietario, mentre le imprese che stanno compiendo il percorso verso un modello alternativo han­no iniziato a diminuire il coinvolgimento delle dinastie proprietarie, investendo di tale ruolo persone di loro fiducia. In questo modo si evita una presenza incombente da parte della proprietà, che spesso è portata a intervenire in maniera eccessiva nella gestione azienda­le e talvolta addirittura nelle scelte tecniche operate dall’allenatore: questo atteggiamento deriva in gran parte dalla paura di perdere il controllo dell’azienda e non tiene conto del fatto che, proprio dele­gando ad altri professionisti, l’imprenditore libera tempo ed energie per sviluppare nuove aree d’affari.

Inoltre, molto spesso il presidente-proprietario non dispone del tempo e delle informazioni necessarie per vagliare tutte le alterna­tive e finisce per circondarsi di una folta schiera di consiglieri-yes man, con effetti deleteri per le sorti dell’azienda e della squadra. Il ruolo del presidente, in tal caso, è proprio quello di favorire il rapporto tra la proprietà e il management, e la figura che lo ricopre deve essere caratterizzata da una forte valenza simbolica, per costi­tuire il punto di riferimento e di unificazione di tutti i destinatari dei flussi comunicativi aziendali

E allora chiediamoci: il nostro Napoli è organizzato in tale modo? Se la risposta (spesso influenzata da pregiudizi) è negativa, dob­biamo porci un’altra domanda: come mai allora i brillanti risultati di gestione sono così duraturi?

Perché il modello organizzativo tipico (del Napoli) non è il mo­dello ordinario. Perché tranne poche eccezioni, che sono poi quel­le vincenti nel lungo periodo, quasi tutte le società di calcio hanno in comune una caratteristica: le aziende calcistiche di successo nel breve periodo quasi sempre hanno avuto la guida di una persona capace: il presidente-imprenditore. Ma quelle stesse capacità, nel processo di crescita della società di calcio, hanno spesso portato l’azienda all’insuccesso, perché ogni aspetto di gestione era strettamente correlato alla eccessiva personalizzazione della figura del presidente-imprenditore. Il quale, soprattutto quando è anche fon­datore, riveste sovente un ruolo come quello di Robinson Crusoe, che rimane sull’isola per ventotto lunghi anni, dodici dei quali pas­sati in assoluta solitudine.

Attorno al presidente-imprenditore De Laurentis non ci sono solo degli executive funzionali come è convinzione consolidata nell’immaginario collettivo. Esiste “un gruppo dirigente” la cui co­stituzione ha richiesto tempo, energia, capacità ed errori. Sì, errori, avete letto bene, voi che pensate al sottoscritto come a un’apologia, perché un eccellente dirigente di azienda è tale se riesce a capitalizzare gli errori. Altrimenti quel presidente alla Ro­binson Crusoe non sarebbe riuscito ad arginare lo tsunami che si sta per abbattere sull’isola calcio.

Aurelio De Laurentiis conosce gli effetti del “modello del formaggio svizzero” di James Reason. Sebbene sia tacciato di ostinazione, arro­ganza e narcisismo, è consapevole del fatto che la responsabilità de­gli “errori” umani in un’azienda è sempre sistemica: i suoi “errori” e quelli dei suoi collaboratori (errori umani dovuti a incompetenza o a inesperienza) hanno la loro matrice nei criteri di gestione aziendale. L’errore aziendale, infatti, non ha origine dalla natura umana, bensì è legato a fattori sistemici che ricorrono nei luoghi di lavoro e nei processi organizzativi nei quali emergono. La contromisura da adot­tare è quindi cambiare le condizioni in cui l’essere umano lavora.

E su questo, avendo approfondito lo studio di quel modello, il presidente sta già lavorando. Perché, altrimenti, dovremo far riferimento ad una massima che gira per il mondo da almeno due millenni: “Gli Dei rendono folli coloro che vogliono mandare in rovina”.

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