di Gionata Borin
Ieri ricadeva il 44° anniversario dall’uccisione, per mano della mafia, del Presidente della Regione Sicilia: il dc Piersanti Mattarella. Sappiamo, dalle motivazioni della sentenza definitiva del processo, che lo vedeva imputato per associazione a delinquere con la mafia (reato commesso ma estinto per intervenuta prescrizione), che Giulio Andreotti venne a sapere direttamente dal boss di Cosa Nostra, Stefano Bontate, dell’irritazione della mafia per l’atteggiamento di Mattarella, ma non avvisò né le forze dell’ordine e né il diretto interessato, per tentare di salvargli la vita.
Questa vicenda rappresenta lo spaccato di quello che fu la Prima Repubblica: da una parte alcuni politici e statisti onesti ed integerrimi, dal rigore morale inscalfibile, che facevano della legalità e della trasparenza una precondizione indispensabile su cui basare l’azione politica. Dall’altra, una serie di personaggi che approfittavano della loro posizione per avvantaggiarsene in maniera illecita tra finanziamenti illeciti e collusioni con le mafie.
Se devo rimpiangere un partito come la Democrazia Cristiana, rimpiango quella dei Piersanti Mattarella, dei Virginio Rognoni, degli Aldo Moro e dei Michele Reina. Non certo quella dei vari Andreotti, Forlani, Carra, Cirino Pomicino, Gava, Mannino, Lima o Ciancimino.
E mentre ricordiamo un grande siciliano, barbaramente assassinato dai vigliacchi mafiosi; negli ultimi giorni siamo venuti a conoscenza, tramite l’inchiesta Anas/Verdini, che un altro “vecchio” siciliano e democristiano, di certo non della stessa caratura morale ed onorevole di Piersanti Mattarella, il pregiudicato Vito Bonsignore (due anni per le mazzette sul nuovo Ospedale di Asti), continua ancora oggi ad avere la possibilità di poter far affari negli appalti con la Pubblica Amministrazione.
Non possiamo far altro che constatare di come, mentre i migliori purtroppo non ci sono più, i peggiori (molte volte) ritornano. E occorre chiedersi se c’è ancora speranza per questo Paese di gattopardi.