Gennaio 2023: il Napoli demolisce la Juventus vincendo al Maradona per 5 a 1, volando a 47 punti, più 10 dalle inseguitrici,. Una settimana più tardi vincendo nel derby contro la Salernitana termina l’andata a quota 50, addirittura a + 13. Un anno dopo il Napoli chiude il girone con 22 punti in meno, già 7 sconfitte in campionato e zero gol fatti nelle ultime quattro partite, contro Torino, Roma, Frosinone e Monza. E tra Juventus 2023 e Torino 2024 sembra di vedere due squadre neppure lontane parenti: una macchina perfetta quella della notte del 5 a 1 al Maradona, una grigia, inoffensiva e insignificante squadretta quella dell’Olimpico.

Un anno esatto segnato da due estremi significativi. Il trionfo con la Juve certificava di fatto la vittoria dello Scudetto e di un modello che pareva impossibile da realizzare in Italia: società familiare e senza multinazionali alle spalle, occhio al bilancio a costo di sacrificare i beniamini del pubblico, progetto tecnico ben delineato. Il tonfo col Torino, con l’espulsione del nuovo arrivato, il napoletano Mazzocchi dopo 4 minuti dal suo ingresso, certifica l’avvenuta e totale distruzione di quel modello, forse proprio a causa dell’assoluta certezza di essere capaci di replicarlo all’infinito.

In mezzo alle due date c’è infatti giugno, la sbornia Scudetto, ma anche il mese degli addii: quello annunciato di Spalletti, quello subodorato di Giuntoli. Addii pesanti, certo, ma è altrettanto evidente che non possa essere ritenuta un’anomalia la “mobilità” di figure come gli allenatori e i diesse nel calcio di oggi. Spalletti era a Napoli da due anni, Giuntoli addirittura da otto e nei vent’anni di gestione De Laurentiis un elemento mai venuto meno è stata la capacità di sostituire i partenti: se Marino aveva riportato il Napoli in A pescando perle come Hamsik o Lavezzi, poi è arrivato Riccardo Bigon che ha preso Mertens, Callejon, Higuain e Koulibaly e così via, fino agli Osimhen e ai Kvara di Giuntoli. Idem per le panchine, dal primo Mazzarri a Benitez, da Sarri ad Ancelotti fino a Spalletti.

Un campanello d’allarme avrebbe dovuto suonare invece per l’addio di Alessandro Formisano, figura tecnica, responsabile del marketing fin da quando il Napoli era un’entità astratta pescata dalle ceneri del fallimento. Con l’addio di Formisano un ruolo più centrale per il marketing azzurro lo assume Valentina De Laurentiis, figlia del patron azzurro. In estate entra in società come club manager Antonio Sincropi, compagno di Valentina. Il motivo dell’addio di Formisano? Ignoto. Al Mattino ha parlato di “Voglia di nuove sfide”, ma non è sfuggito un tweet al veleno tra il primo e il secondo tempo di Napoli-Milan dello scorso ottobre, (con gli azzurri momentaneamente sotto per 2 a 0): “La presenza di un gruppo di collaboratori capaci, è il complemento visibile per il lavoro del leader, giacché essi gli offrono sostegno e gli alleviano l’onere di prendere decisioni. I leader possono essere resi migliori – o peggiori – dalle caratteristiche di chi li circonda”, aveva scritto.

E dunque il Napoli in una versione (ancor più) familiare puntava su Garcia per il dopo Spalletti e con un piede in ritiro perdeva un altro pezzo: Francesco Sinatti, il preparatore atletico che nell’anno dello Scudetto non solo aveva fatto volare gli azzurri ma aveva garantito una tenuta fisica ottimale con pochissimi infortuni patiti durante la stagione. Poi gli addii di Kim e Lozano: ma questo è calciomercato, qualcuno va via qualcuno rimane qualcuno arriva e va messo in conto. Basta la perdita, pur pesante, di Kim per giustificare 22 punti in meno e una squadra irriconoscibile? Non basta, come non basta la preparazione (sicuramente) sbagliata di Garcia assieme agli errori tattici e tecnici commessi dal francese.

Non se una squadra col sorriso e affamata di campo e di avversari è diventata una squadra con epidemia di mal di pancia: il rinnovo di Osimhen firmato in queste ore diventato una telenovela, quello mancato di Zielinski che forse andrà all’Inter, quello mancato di Kvaratskhelia che pare la controfigura del calciatore meraviglioso visto lo scorso anno, quello di Politano che ancora non arriva, quello di Di Lorenzo che è arrivato e nonostante ciò il solitamente loquacissimo procuratore prima ventila la possibilità di andar via a fine stagione e poi batte in ritirata. Insomma quello che era un ambiente idilliaco si è trasformato nella “Malincònia” di Caparezza, da dove se ne vanno tutti e quelli che rimangono vogliono andar via e addirittura chi arriva ci mette quattro minuti per combinare sciocchezze: Mazzocchi appena arrivato dalla Salernitana che entra durissimo su Lazaro lasciando i suoi in dieci a naufragare contro il Torino.

Gli addii, la scelta di un tecnico sbagliato e il ritorno di Mazzarri che pure sta per essere derubricato a errore, la gestione del parco calciatori: Aurelio de Laurentiis si è preso le responsabilità della situazione, promettendo di approfondire il discorso e di intervenire sul mercato. Riuscire a invertire la rotta, pure con gli innesti di qualità che sembrano destinati a vestire l’azzurro appare difficile, col ritiro figuriamoci. E appare difficile pure perché le macroscopiche e pressoché totali responsabilità del patron della situazione attuale rischiano, e ormai probabilmente anche qualcosa in più, di diventare un alibi per calciatori spenti, appesantiti, ingrigiti e tristi. Manca un capobranco come Spalletti? Probabile, ma neppure questo basta da solo a giustificare Lobotka che lo scorso anno era fulcro del gioco e quasi imprendibile è tornato ai tempi di Gattuso (chili a parte), Kvara da candidato al pallone d’oro si è trasformato in uno dei tanti irritanti dribblomani che quando non trovano la giocata la riprovano all’infinito inutilmente, Rrahmani monumentale negli anni spallettiani si fa saltare in testa non da Giroud, che fa quello di mestiere, ma da Lookman, di due spanne più piccolo. E Di Lorenzo? Capitano coraggioso e mai domo prima appare ora il simbolo del momento del Napoli tra disastri (vedi Real o Frosinone) e prestazioni scialbe. Il calo di forma può starci, quello di tensione no: da capitano ha fatto bene a tranquillizzare Mazzocchi sul campo dopo l’entrata scellerata, ci si augura che negli spogliatoi gli abbia tirato le orecchie a monito per tutti gli altri…e che magari pure la rettifica del procuratore sia figlia di un suo “not in my name”.

Un pasticcio enorme dunque, talmente grande da causare l’effetto domino, con il paradosso che il responsabile principale e unico di quel pasticcio è pure il solo ad avere la soluzione. Perché al netto di tutto, la guida tecnica giusta si trova, il “centralismo familiare” e l’egocrazia possono essere derogate almeno parzialmente con l’innesto di figure competenti come già in passato e se il parco giocatori, in parte o in toto e a prescindere dai nomi, ritiene che la causa azzurra non sia più sostenibile, o che quella personale ne sia superiore in termini di importanza De Laurentiis la ricetta, stavolta sì, la conosce già. Lo Scudetto non lo ha vinto (solo) scegliendo Giuntoli o (solo) puntando su Spalletti o pescando Kvaratskhelia: lo ha vinto (soprattutto) mandando via in un colpo Insigne, Mertens, Koulibaly, Fabian Ruiz, Ospina… quelli che ormai avevano perso il furore dell’azzurro pensando di aver acquisito sul campo una linea di credito illimitata e il diritto sine conditio a rappresentarlo. Si è visto anche durante i festeggiamenti Scudetto, quelli spontanei, che da quelle parti la linea di credito illimitata coi tifosi e con la città, vita natural durante e oltre, può appartenere a uno solo… e no, non è De Laurentiis.

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