Tra la fine del vecchio anno e l’inizio del nuovo si tirano le somme e si guarda all’anno che verrà. «Credete che sarà felice quest’anno nuovo?» chiede l’amico passeggero che c’interroga. Non possiamo che rispondergli: «Oh illustrissimo sì, certo». Con l’amaro in bocca se usi l’autostrada per ritornare a casa nel giorno di Capodanno.

Un viaggio più lungo del solito, quest’anno: da Firenze alla Riviera di Ponente, lungo l’eterna gimkana delle autostrade liguri. Qualcosa non torna: noto una differenza tra pedaggio di andata e di ritorno. «Come mai è aumentato?» La stessa, retorica domanda di chi viaggia a cavallo tra vecchio e nuovo anno. All’indomani, nessuno se ne accorgerà.

Gli investimenti per costruire le autostrade furono sostenuti dai padri dei baby boomer, interessi compresi. L’ammortamento è morto e sepolto. C’è bisogno di nuovi investimenti? Certamente, la maggior parte per mettere una pezza a un sistema obsoleto. Nulla di paragonabile allo sforzo fatto sessant’anni fa per trasformare l’Italia da paese arretrato al quinto Pil mondiale, traguardato nel 1991. Da allora, la lunga e inesorabile discesa lungo la china della decrescita infelice.

In passato il costo della vita aumentava perché aumentavano i salari, il prezzo delle materie prime e quello degli strumenti di lavoro. Per tappare un buco, cambiare un guard-rail, riasfaltare un tratto di strada i costi aumentavano e così la tariffa. Aumentava anche il benessere, anche se con meno lena degli utili delle compagnie. Da almeno vent’anni, il benessere diminuisce, i salari non crescono e le pensioni si riducono, gli utili delle compagnie e delle commodity crescono comunque. Con l’automazione, i costi di esazione dovrebbero diminuire. Per di più, pagare con il Telepass comporta un obolo mensile per la magica scatoletta. Si paga per pagare, comodi.

Da Reggello ad Albisola, il pedaggio è 29,30 euro, poco meno di 10 euro ogni cento chilometri. Secondo un rapporto della Associazione Italiana Società Concessionarie Autostrade e Trafori (Concessioni autostradali a pedaggio in Italia, 2 luglio 2020) il livello medio delle tariffe applicate sulla rete autostradale italiana risulta essere “in linea, e nella maggior parte dei casi inferiore, rispetto al livello medio delle tariffe applicate nei principali paesi europei con rete autostradale prevalentemente a pedaggio, ovvero Spagna, Francia e Portogallo (nello specifico, è di poco superiore alla tariffa media della rete portoghese e nettamente inferiore rispetto alla tariffa media della rete di Francia e Spagna); volendo portare un esempio, i pedaggi applicati dal maggior concessionario italiano (Autostrade per l’Italia) sulla propria rete sono, in media, circa il 39% più bassi rispetto a quelli applicati in Spagna e circa il 16% inferiori rispetto a quelli francesi”.

Marsiglia dista da Parigi circa 773 chilometri, il pedaggio costa 66,10 euro, ossia 8 euro e mezzo ogni 100 chilometri. Tolosa dista da Parigi 675 chilometri, il pedaggio della A20 costa 39,90 euro, meno di 6 euro ogni 100 chilometri. In Spagna, la tratta da Saragozza a Bilbao è la più cara, costa 35,60 euro per 305 chilometri, ma dall’anno scorso si viaggia gratis per 625 chilometri da Barcellona a Madrid; prima si pagava un pedaggio di 35,70 euro, poco meno di 6 euro ogni 100 chilometri. Per andare da Lisbona a Porto sulla A1, 303 chilometri, si sborsano 23,45 euro di pedaggio, meno di 8 euro ogni 100 chilometri. Da Milano a Roma si percorrono 555 chilometri sull’Autostrada del Sole pagando 43,70 euro di pedaggio, poco meno di 8 euro ogni 100 chilometri (dati ricavati da viamichelin.it). Anche per le tariffe autostradali la metafora dei polli di Trilussa docet ed è molto complicato fare dei paragoni.

Perché le tariffe crescono? Alla fine del secolo XX, l’Italia vantava una delle reti autostradali migliori del mondo. Oggi c’è meno da vantarsi. Nel nuovo millennio il traffico è aumentato meno delle attese. Insomma, meno passaggi meno pedaggi. Ecco una possibile spiegazione: meno passaggi meno pedaggi. Forse il motivo degli aumenti è che si devono mantenere inalterate le aspettative di utile delle concessionarie, pubbliche o private che siano, assieme alla quota gabellare incamerata dallo Stato.

Se meno gente compra, l’impresa che vuole mantenere la propria quota di mercato abbassa il prezzo, rinunciando a una quota di utile. È il mercato, bellezza! Funziona bene per una borsa griffata. Se trovo tropo cara quella borsa, ne posso comprare una più a buon mercato. Ma se il suo prezzo cala, magari ci ripenso. Da Milano a Bologna non posso invece scegliere tra due autostrade, una bella e scorrevole ma cara, l’altra un po’ sconnessa ma economica. Potrei andarci in Statale, mettendo in conto una seduta di psicoterapia visto l’abbandono in cui versano le strade statali. In treno ad alta velocità, giacché gli interregionali sono sempre più radi? Magari decidere di non andarci proprio, visto che muoversi costa troppo. Se sto a casa, però, non è che affosso il Pil?

Dalla seconda Repubblica in poi, privato è bello. Un modello che ostiniamo ad applicare in modo diretto e naturale alle infrastrutture, all’urbanistica, ai servizi sociali. È un clima ideologico prima che economico. Molte aziende, quotate o meno in borsa, sono concessionarie dello Stato. Ossia servitori dei cittadini o, meglio, servitori della gente comune che comprende i campagnoli e i montanari, gente che si muove assai peggio di chi sta nelle grandi città. Talvolta, nasce il sospetto che sia invece la gente al servizio delle commodities. Perfino Adam Smith avrebbe qualche dubbio su questo andazzo.

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