La conclamazione di un impianto in “grave crisi”, le accuse ad ArcelorMittal, lo scaricabarile sul governo Conte 2 e anche, velatamente, sulle scelte in fase di gara da parte di Carlo Calenda. Quindi un po’ di annunci roboanti infarciti di retorica. Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, prepara il terreno all’incontro con i sindacati di questa sera nel quale, forse, verrà indicata la strada scelta dall’esecutivo per garantire la continuità aziendale dell’ex Ilva dopo il rifiuto del socio privato di Acciaierie d’Italia, partecipata al 38% da Invitalia, di ricapitalizzare la società. Ciò che manca nel discorso del ministro nell’aula del Senato, alla fine, è proprio lo scenario futuro: cosa farà il governo di fronte a un polo siderurgico in stato comatoso? Urso si tiene le mani libere, promette un “cambio di equipaggio” e una strategia nazionale per l’acciaio che vada da Taranto alle acciaierie del nord passando per l’Ast di Terni e l’ex Lucchini di Piombino.

Il resto è una fotografia della morente Ilva, descritta come un impianto in “grave crisi” che ha chiuso il 2023 con “meno di 3 milioni di tonnellate” di acciaio prodotto quando “avrebbero dovuto essere quattro”. Uno stabilimento, a conti fatti, in cui “nulla di quello che era programmato e concordato è stato realizzato” e “nessun impegno” è stato mantenuto per quanto riguarda i livelli occupazionali e il rilancio industriale “in spregio degli accordi sottoscritti”. Il mirino è puntato su Mittal, il colosso franco-indiano che lunedì ha dato il benservito al governo annunciando di non voler partecipare a un rifinanziamento, nemmeno da socio di minoranza. La mossa ha fatto aprire gli occhi perfino a Urso, che di fronte al Senato sposa il sospetto che aleggia da sempre: “Mittal aveva fatto l’investimento per evitare un concorrente di mercato, secondo i più”, scandisce il ministro.

Ecco perché, ora, “non vogliono mettere alcuna quota, anche se dovessero scendere al 34%” del capitale, lasciando la maggioranza a Invitalia. “Si è dichiarata disponibile a scendere in minoranza ma non a contribuire finanziariamente, scaricando tutto sullo Stato ma reclamando il privilegio di condividere in ogni caso la governance così da condizionare ogni scelta. Non è accettabile né percorribile sia nella sostanza che alla luce dei vincoli europei sugli aiuti di Stato”, spiega il ministro. Da qui la decisione di dare mandato a Invitalia di esplorare “possibile conseguente decisione”. Sono, insomma, “ore decisive per garantire la continuità della produzione e la salvaguardia dell’occupazione per il periodo necessario a trovare altri operatori industriali”. Tradotto: si va verso un commissariamento a tempo dell’ex Ilva, mentre si va alla ricerca di un nuovo salvatore. I nomi che circolano sono sempre gli stessi: Arvedi, Metinvest, Marcegaglia. Ipotesi, mezzi abboccamenti e nulla di più al momento. Si vedrà.

Di certo, nella visione di Urso, si è arrivati in queste condizioni anche a causa delle scelte dei governi che hanno preceduto quello guidato da Giorgia Meloni. Il ministro riparte dal bando, imbastito da Federica Guidi e portato a conclusione da Calenda: “Mittal vinse la gara pubblica per assumere in affitto la gestione dell’acciaieria in attesa della acquisizione, pur in presenza di un’altra cordata pubblico-privata cui partecipava perfino Cassa Depositi e Prestiti”, ricorda. Quindi la solita tiritera: l’addio allo scudo penale come madre di tutti i problemi che ne sono seguiti. E soprattutto la firma dei patti parasociali per chiudere la causa che ne seguì. La firma avvenne durante il Conte 2 e il ministro definisce quegli accordi – mai resi pubblici – come “leonini”, “scellerati” e “fortemente sbilanciati”. In altri termini: “Nessuno che abbia cura dell’interesse nazionale avrebbe mai sottoscritto quel tipo di accordo. Nessuno che abbia conoscenze delle dinamiche industriali avrebbe accettato mai quelle condizioni”.

Di fronte ai senatori, compreso Stefano Patuanelli che era proprio il ministro che seguì il dossier e che ha poi replicato in aula alle accuse, Urso esplicita pubblicamente alcuni punti di quei patti, finora sempre solo sussurrati: “La governance era di fatto rimasta nelle mani del socio privato che nel frattempo però deconsolidava l’asset, a dimostrazione del proprio disimpegno, richiamando anche i propri tecnici e non immettendo più alcuna risorsa nell’azienda – ha detto – Anche nell’ipotesi di una salita in maggioranza del socio pubblico, Invitalia comunque non avrebbe potuto designare un amministratore di propria fiducia. Non solo. Invitalia neanche in maggioranza avrebbe potuto cedere le proprie quote a terzi. Unica possibilità concessa era quella di cedere non più del 9% ad un socio finanziario (non operativo sull’acciaio) e comunque con diritto di prelazione in capo a Mittal”.

Critico nei confronti del ministro, il presidente dei senatori Pd, Francesco Boccia che ha bollato la ricostruzione come piena di “inaccettabili omissioni”, invitando il governo, se sceglierà l’amministrazione straordinaria a farla con “almeno 1 miliardo di fondo speciale immediatamente disponibile per garantire un passaggio senza traumi”, altrimenti, ha aggiunto, “vi assumerete la responsabilità di sostituire il socio privato e di ricorrere alle tante eccellenze italiane”.

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