Ho visto Enea di Pietro Castellitto. Sono andato con Ethel. In sala ho notato Carlo Cracco e davanti a me si è seduto Biagio Antonacci. Alla fine della proiezione ho sentito Antonacci che diceva al figlio “Bellissimo questo film”. Era la prima milanese su inviti. Sono stato invitato personalmente da Giorgio Quarzo Guarascio, il coprotagonista.
Con Quarzo ci siamo conosciuti poche settimane fa, mi ha scritto presentandosi semplicemente come Giorgio, dicendomi che aveva piacere di conoscermi. Ci siamo dati appuntamento in una enoteca toscana di un caro amico. Il mio caro amico mi fa: “E se fosse un killer che vuole ucciderti?”, gli ho risposto “Non sono mica John Lennon”. Non era un killer ma semplicemente Giorgio Quarzo, conosciuto anche come Tutti fenomeni, uno pseudonimo che usa per cantare. Enea è la sua prima prova come attore, ed è una prova riuscitissima.
Ora parliamo nello specifico del film. Diciamo subito che è un film d’autore, significa che il regista esprime una sua visione del mondo unica, non derivativa ma sorgiva, originale. Pietro Castellitto nelle interviste parla del film in questi termini: “Una storia di un’amicizia tra due quasi trentenni che vogliono sentirsi vivi”. Sentirsi vivi in un mondo di sordi, aggiungo io. Il film è ricco di simboli e di riferimenti filosofici, c’è sicuramente Nietzsche (Pietro Castellitto ha letto tutto del filosofo tedesco), soprattutto il celebre pensiero sul caos che bisogna avere dentro per partorire una stella danzante, ma il riferimento più diretto è Spinoza, la distinzione tra potere e potenza viene proprio citata nel film: Enea e Valentino, i due protagonisti, non cercano il potere (impersonificato dallo scrittore Oreste Dicembre, un ottimo Giorgio Montanini) ma la potenza, il conatus, il desiderio di espansione vitale, la vita che vuole continuamente se stessa, un fuoco che si propaga in mille direzioni, che tracima dal cerchio delle regole, della morale comune e delle convenzioni. Baudelaire scriveva “Quando il nostro cuore ha fatto la sua vendemmia, vivere non è che male”. C’è ancora tanta voglia di vendemmiare nei cuori di Enea e Valentino e di inebriarsi del succo della vita.
E’ un film sulla giovinezza, non sui giovani. La giovinezza appartiene a tutti, indipendentemente dall’anagrafe, appartiene a tutti coloro che resistono e non si arrendono. Dove c’è ancora l’anelito a una purezza inviolabile, c’è ancora vita, quella vita che spinozianamente “vuole continuamente se stessa”, e volendo continuamente se stessa è pronta a sacrificarsi, a rinunciare a tutto per un attimo di bellezza, per un’emozione non ancora codificata dalle fredde geometrie di una società mortifera, fatta di nulla, di ripetizione insensata, di cocci rotti.
Pietro Castellitto si cala nella sua storia personale (non a caso il padre è interpretato da Sergio e il fratello da Cesare Castellitto) e tira fuori un film sincero, visionario, arioso e intimo. L’ariosità è data dai voli su Roma a bordo di un aeroplano ultraleggero (l’elemento dell’aria) tra gabbiani che sembrano deridere con il loro garrito il traffico delle nostre vite incapsulate, ci sono fuochi d’artificio notturni e spari di pistola (l’elemento del fuoco), c’è un cuoco giapponese che fa “l’amore” con la bocca dei salmoni e ci sono “voli pindarici” su distese marine (l’elemento dell’acqua) e infine c’è la terra (l’occhio vivente di Pietro che scruta i sentimenti da un cespuglio verde) e c’è la Terra vista dalla luna, in una poetica inquadratura che dura poco ma che forse racchiude il senso lirico di tutto il film. In questo senso è un film elementare: aria, fuoco, acqua e terra. Siamo così frastornati dal nostro nulla, sembra dirci Castellitto, siamo così anestetizzati che non ci accorgiamo nemmeno di quando una palma ci cade in casa, mandando in frantumi un soffitto di vetro, ed è una chiara accusa a una Roma-bene intrappolata nei propri privilegi. I privilegi dello stesso Pietro Castellitto che sono un peso di cui sgravarsi attraverso l’avventura, il rischio e la fantasia. “La differenza tra di noi è che io sono nato da una famiglia povera, mentre tu sei nato da una famiglia ricca” dice il padre Sergio al figlio Pietro.
Dicevamo prima che è un film arioso ma anche intimo, ed è nei dialoghi tra gli attori che viene fuori la bella scrittura del regista (film scritto benissimo). Il film si apre proprio con un dialogo tra Valentino, Enea e la madre di Enea (interpretata dalla brava Chiara Noschese), si parla di una umanità rotta, depressa, dove la depressione è quasi un sostegno, una compagna di vita, ma di una vita incastonata nel nulla, come una pietra che di prezioso non ha più niente, mentre un animale notturno, forse una volpe, passa come un’ombra e ci ricorda che la vita deve ritrovare la sua dimensione naturale: il suo punto di fuga. Quando siamo attorniati dalla morte, fuggire è un atto d’amore. Fuggire ovunque, basta che sia un fuggire lieve e innamorato. Se restiamo imprigionati, come sfogo non ci resta altro che recarci in una sorta di centro benessere paradossale, dove si affittano suite deluxe solo per distruggere con una mazza lampadari di cristallo (i cui frammenti luminosi poi ci portiamo addosso nei capelli), come fa Celeste, interpretato con malinconica ironia da Castellitto padre.
Altri tocchi di intimità del film molto riusciti sono la lettura da parte di Celeste (che fa lo psicologo) della lettera di un suo paziente che lo ringrazia per avergli insegnato a resistere, anche solo un giorno in più, e in filigrana possiamo leggere il ringraziamento dello stesso Pietro Castellitto rivolto a un padre amorevole. La scena forse più bella, intima e tenera, è invece dedicata a due gangster che in macchina evocano la mamma con infinita tenerezza poco prima di essere freddati con spietatezza improvvisa (uno choc per lo spettatore), perché la vita è anche questo: spietatezza improvvisa che ci toglie tutto nel brivido lacerante di un attimo. Menzione d’onore per Adamo Dionisi che interpreta il gangster Giordano, ricamando un personaggio dolente e indimenticabile. Mi rendo conto che è difficile sintetizzare un film così ricco e strabordante, le mie parole non tengono il ritmo delle immagini e del loro senso eccedente; la bellissima Eva (Benedetta Porcaroli) è la tentazione luminosa di un peccato, un peccato che però non è originale, come vorrebbe alludere il suo nome, ma è il peccato più comune che ci sia: sposarsi e aspirare a una vita “normale”, perché le stelle danzanti bruciano presto e si spengono presto e forse è meglio ritagliarsi una porzione di piccola felicità domestica.
Ma come è possibile? Ho parlato pochissimo del mio amico Giorgio Quarzo Guarascio! La sua voce particolarissima, una voce che sembra sbucare sempre da una tana d’intimità inaccessibile, è la vera colonna sonora del film, anche se Giorgio canta Spiagge di Renato Zero storpiandone il testo come un Hendrix potrebbe storpiare l’inno americano con la sua chitarra, la vera colonna sonora è la sua voce quando parla e scandisce le parole che sembrano tremare tra la vertigine e l’amore, una voce che ci entra dentro e trova il suo spazio nella nostra immaginazione, e a lui è affidata la scena più fantasmagorica del film, quando si va a schiantare contro il palazzo del Potere con il suo aeroplano ultraleggero, in compagnia della madre e dei soldi sporchi, vestito come un re Lear, tra Shakespeare e Saint-Exupéry, in una sorta di 11 settembre della fantasia e della libertà contro tutto ciò che ci rende schiavi e miseri: il denaro fine a se stesso.
Ogni bacio nel film va a nero, viene oscurato, solo alla fine tutti questi “baci rubati” alla nostra vista si fondono in un unico bacio ascensionale, quello tra Celeste e sua moglie Marina, con lo sfondo di una Roma che ha tramutato la sua eternità in una cartolina, mentre il figlio-sposo Pietro viene freddato alle loro spalle. Sic transit gloria mundi. The End.