di Francesca Scoleri
Qualche anno fa, il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, disse che il Parlamento condivideva le stesse preoccupazioni delle bande criminali: “Come fuggire alle manette, alle intercettazioni, ai magistrati, ai processi, alle indagini, alle perquisizioni, agli interrogatori, ai pentiti, ai testimoni. E legifera di conseguenza”. Accadeva nel 2011: Berlusconi sgovernava il Paese e al suo fianco, fra gli altri, l’allora ministro per la gioventù Giorgia Meloni, poco presa dalla gioventù e molto presa dall’apprendere i trucchi del mestiere di sgovernante.
Proprio grazie a quegli insegnamenti, ci ritroviamo, 12 anni dopo, ad esprimere con convinzione le stesse parole pronunciate dal direttore Travaglio. Il maestro è morto ma ha lasciato questa eredità: l’utilizzo della cosa pubblica a scopi di impunità. Giorgia Meloni, col suo governo, l’ha raccolta pienamente e all’Italia tocca pagare il conto.
Sì, perché in questa fitta rete di affari privati che incrociano il pubblico esercizio e l’abuso d’ufficio – buonanima – il Paese crolla inesorabilmente nella trascuratezza dei problemi della gente che a quelle bande criminali non appartiene. Cittadini utilizzati al solo scopo di raccogliere voti con menzogne ormai svelate; persone fragili che per l’ennesima volta, hanno sperato in un cambiamento, magari radicale, che imponesse sussulti di dignità alle istituzioni. Invece, assistiamo all’esatto contrario.
La vicenda che sta interessando Tommaso Verdini, cognato di Matteo Salvini, potrebbe rivelarsi un clamoroso esempio. La reazione del ministro sulla condizione dei parenti acquisiti (grazie alla sua relazione con Francesca Verdini), con il suocero condannato in via definitiva per bancarotta e il cognato ai domiciliari con l’accusa di corruzione in Anas, organo controllato da Salvini stesso, non lasca trapelare imbarazzi, ma la consueta sfacciataggine: “Conosco il fratello di Francesca, è un ragazzo in gambissima“. Da ministro a giudice senza attraversare un minimo di senso dell’etica che, nel suo ruolo, sarebbe il requisito minimo richiesto. E Meloni, dichiarando pubblicamente che la vicenda non riguarda il governo, si dimostra anche peggiore.
Per non parlare dell’assurda permanenza al governo di Vittorio Sgarbi che non ritiene di sgombrare il campo da una sconcertante realtà: il sottosegretario che deve tutelare i beni culturali è indagato per il furto di un’opera d’arte. E non crea aloni di inadeguatezza al ruolo istituzionale nemmeno Daniela Santanchè con le numerose situazioni poco chiare legate alle attività che ha intrapreso e fatto fallire di cui, le più gravi, non risiedono nelle carte della magistratura ma sul piano morale: nessuno può dimenticare, infatti, i dipendenti che ha lasciato senza lavoro, senza stipendio e senza liquidazione mentre faceva sfoggio su Instagram di lussuosi addobbi natalizi con borse e stivali da svariate migliaia di euro.
Queste ed altre vicende non scuotono alcuna coscienza nel governo preso com’è da bavagli ai giornalisti – quei pochi sfuggiti alla dottrina della compravendita che si imbavagliano autonomamente – dalla riduzione di reati che possano svelare il marcio nascosto nei rapporti dei politici con chi finanzia campagne elettorali, dalla soppressione di baluardi dell’anticorruzione, come l’abuso d’ufficio. Ebbene sì, dopo 12 anni, riecheggiano ancora quelle parole: “Il Parlamento condivide le stesse preoccupazioni delle bande criminali”, solo che il Paese è ancora più devastato di allora e tutto ciò di cui ha bisogno è nelle tasche di impenitenti ladri delle risorse pubbliche.
Sia ben chiaro a chi rinuncia a curarsi, a chi lavora eppur si vede sempre più povero, a chi rinuncia ai propri sogni e si convince di essere perdente. Sia chiaro a chi soffre.