Roma alla fine divora tutto, anche gli sciamani capaci d’incantare una piazza calcistica. Il quarto derby perso su sei dell’era Mourinho segna probabilmente un punto di non ritorno: quando la tua squadra scaglia il primo tiro in porta contro una Lazio che ha gestito con intelligenza la partita senza sporcarsi le mani, anche il guru portoghese è chiamato a rispondere delle sue responsabilità. La sensazione post stracittadina è che il tempo dell’incantesimo sia finito: due anni di delirio, di sold out e di passione sconfinata nei confronti dell’allenatore che nel 2022 condusse la Roma americana a conquistare la Conference sono forse arrivati a un punto di non ritorno. Forse, perché nel calcio mai dire mai, ma solo un miracolo può riaprire le porte allo sciamanesimo: conquista dell’Europa League – dove i giallorossi dovranno affrontare i playoff –, o quarto posto in Serie A. Vista la qualità della squadra, un’impresa ai limiti dell’impossibile.
Il dato di partenza è questo: un parco giocatori mediocre, nonostante la presenza di Lukaku, di Dybala con i suoi muscoli di seta, del giovane Bove, della tigna di Mancini, del livello sufficiente del portiere Rui Patricio. Il resto è un pianto: dall’eclisse di Lorenzo Pellegrini ai cross quadrati di Karsdorp, Kristensen, Zalevsky e dello Spinazzola attuale, fino alla lentezza cronica di Paredes, al tramonto di Belotti e al mistero che circonda Smalling. Una squadra con limiti tecnici enormi che, e qui entra in scena Mourinho, gioca in modo monotono palla all’indietro. Se arretri, per poi affidarti al “lancione” di turno o al cross eternamente sballato, fatichi a inquadrare la porta. Giochi il derby e fai, al netto della sconfitta e dell’eliminazione in Coppa Italia, una figuraccia. Primo tiro in porta all’88’: è cronaca.
Obiezione: Mourinho non è stato mai un portatore di bel gioco. Si sa e si sapeva. Le sue divinità sono altre: la capacità di rubare le menti dei giocatori, di portarli oltre i loro limiti – “per Mourinho avrei potuto anche uccidere” disse un giorno Ibrahimovic – , di sedurre una città e il suo popolo e, soprattutto, di vincere. Il calcio di Mourinho è questo: una cavalcata verso la gloria. Brutale. Se però la cavalcata s’interrompe, il castello crolla. E restano le macerie.
Saranno quelle che lascerà probabilmente il portoghese se i Friedkin decideranno di non rinnovare il suo contratto. Sono tutti in attesa del pollice di Dan, il padre della famiglia. Come Nerone al Colosseo, l’”americano” che è andato a prendere Lukaku di persona per portarlo a Roma a bordo del suo aereo, tieni tutti con il fiato sospeso: quale sarà il verdetto? Difficile avventurarsi in previsioni anche perché i Friedkin sono muti. Mai una parola, mai una dichiarazione, mai un proclama, mai una presa di posizione. Si affidano ai fatti, e al netto degli oltre novecento milioni spesi dal 2020 a oggi, la Roma continua a essere una voragine di debiti, è alla ricerca di un nuovo direttore sportivo dopo aver arruolato con gli algoritmi l’ex portaborse di Rui Costa al Benfica – Tiago Pinto non aveva mai ricoperto ruolo di spicco in un club -, ha una rosa da rifare e si avvia verso l’ennesimo anno zero. Tra i Friedkin e Pallotta, l’America si è rivelata un mezzo disastro a Roma. La ragione di esistere delle due proprietà era la costruzione dello stadio: sono trascorsi dodici anni dal primo progetto e siamo ancora a carissimo amico.
Lo sciamanesimo di Mourinho è stato un immenso tappeto che ha coperto tutto: errori, buchi, cambi di dirigenti a livello industriale – ma i mammasantissima sono sempre al loro posto -, errori tecnici. I sold out ripetuti hanno costituito, oltre a una fonte importante di liquidità, un fenomeno antropologico. Mourinho e il popolo giallorosso, una miscela perfetta. Ma di fronte alle sconfitte, alla mediocrità tecnica, ai derby diventati un incubo – ultimo gol alla Lazio 410 minuti fa –, agli errori nei cambi e alla nevrosi collettiva, lo sciamanesimo si dissolve. L’incantesimo si rompe. E ti ritrovi, ancora una volta, all’anno zero.