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NBA Freestyle | Tre guardie che meritano un commento (nel bene o nel male) in pillole

Pensieri in libertà (con libertà di pensiero) sulla settimana NBA

Steph Curry (Golden State Warriors)
I Warriors navigano in cattive (cattivissime) acque. Hanno il problema Draymond Green? Dovevano iniziare prima la fase di ricostruzione? Klay Thompson non è mai tornato ai livelli pre-infortunio? Hanno investito su giocatori che non hanno rispettato le promesse (Jordan Poole…)? Tutte possibilità. Fatto sta che sono in fondo alla classifica a Ovest (dodicesimi). Male. In tutto ciò, Steph Curry non sta giocando la miglior stagione in carriera, per carità. Sta predicando nel deserto, ha un supporting cast non di altissimo livello. Però, è bene sottolineare, massimo rispetto per Steph Curry. L’unico che in tutto questo caos, sta lottando per sorreggere sulle sue (forti) spalle la stagione della franchigia. Una point-guard, Curry, che ha cambiato per sempre il gioco. Non perché ha il record assoluto di tiri da fuori infilati in carriera. Questa è una conseguenza. Ma perché è stato il primo a dominare davvero la lega con il tiro da tre dal palleggio (mentre, per dire, Ray Allen era un tiratore micidiale in catch-and-shoot e non dal palleggio). Nessuno prima di lui lo aveva fatto in questo modo, con questo automatismo. Ci avevano già (timidamente) tentato gente come Dana Barros e Mahmoud Abdul-Rauf, ma non avevano il suo talento, giocavano in altra epoca culturale (anni ’90), non erano così completi. Steph Curry, tuttavia, non è mai stato solo un “semplice” tiratore. È anche un gran penetratore, un palleggiatore tra i migliori di sempre, un gran passatore. Sa muoversi senza palla, sa giocare nel flusso, sa mordere senza accentrare. Ha dimostrato di poter essere dominante, senza fare il dominatore. Tutto quello che verrà per Golden State nei prossimi mesi, dipenderà come sempre solo da lui (nonostante i 35 anni di età).

Shai Gilgeous-Alexander (OKC Thunder)
Il tiro da fuori non è, diciamo così, tra le sue armi migliori (35,2%). Non è detto che prima o poi non rappresenterà un problema (soprattutto ai playoff). Per il resto, mettete la parola “superstar” accanto al suo (complesso) nome. Il contatore di Shai Gilgeous-Alexander segna 31,4 punti di media con il 55,5% dal campo e quasi il 90% ai liberi. Cifre da MVP. Il miglior gioco dalla media dai tempi di Rip Hamilton (che però aveva meno la palla in mano), se si alza dopo una virata nei pressi della lunetta potete scrivere due. Discretamente alto per il ruolo (1.98), magro come un chiodo, lungo lungo, ma molto sciolto e spettacolare. Gilgeous-Alexander è morbido nei movimenti e sa come attaccare gli spazi. Il tutto senza avere un primo passo irresistibile o senza essere un saltatore alla Ja Morant. Il suo è un gioco di “ritmi”, che variano più volte anche durante la stessa penetrazione, accelerano o rallentano in base alla reazione della difesa. Bravissimo a leggerle. Attacca l’uomo, esita, cambia velocità, poi si arresta, boom. Non male come passatore sui pick-and-roll a livello qualitativo e nel servire i tagli, Gilgeous-Alexander è il leader di una squadra che sta sorprendendo l’NBA partita dopo partita (gli Oklahoma City Thunder sono secondi a Ovest con 26 vinte e 11 perse).

Jalen Brunson (New York Knicks)
Di punti ne può segnare a caterve (sia in regular season che nei playoff), non è questo il problema. Attaccante on the-ball col pedigree, con un gran tiro mancino e la capacità di segnare anche in entrata contro gente a cui rende mediamente 10-15 centimetri. Ama tenere la palla in mano più della sua stessa vita (30,4% di possessi di squadra finalizzati da lui). Le cifre sono lì, parlano per lui: 25,8 punti di media con il 42,4% da tre. Piccolo (1.85), ma molto abile nel creare spazio tra sé e il difensore, sfruttando il perno, facendo step-back, o anche solamente attaccando i close-out su un ribaltamento. Ma può essere la prima opzione offensiva di una squadra che vuole arrivare fino in fondo ai playoff? Guardando alla storia, verrebbe da rispondere di no, a meno che tu non sia Allen Iverson (che però non ha mai vinto un Titolo, è arrivato in Finale nel 2001) o Steph Curry. E lui non è certo al loro livello. Il tema è che durante i playoff il gioco cambia, le difese diventano più attente, gli aggiustamenti dei coach fanno la differenza tra una partita e l’altra. Per semplificare, un primo violino con lo stile di gioco (e lo specimen fisico) di Brunson è più facile teoricamente da fermare rispetto a un Giannis Antetokounmpo o Kawhi Leonard (per citare due esempi di gente che ha vinto per davvero come prima opzione offensiva). Bruson deve metterla sempre sul piano tecnico, ha solo quella dimensione. Giocatori come Antetokounmpo o Leonard, se vanno fuori ritmo in attacco, possono fare leva sulla parte fisica del proprio gioco per non perdere continuità, fiducia nei propri mezzi, e non dare punti di riferimento costanti agli avversari. Questa una chiave di lettura. Sarà il campo a parlare, come sempre.

That’s all Folks!

Alla prossima settimana.