Davanti al “Palazzaccio”, a metà strada tra la Cupola e il Parlamento, tra i due più forti poteri che dominano la città eterna, sovrastandola con una cappa dorata e impenetrabile che fa di Roma il più grande set a cielo aperto, perfetto per una saga criminale affollata di misteri irrisolti. Proprio lì, in Piazza Cavour, davanti al Palazzo di Giustizia si raduneranno sabato 13 gennaio alle 15,30, come ogni anno, gli attivisti che da anni invocano verità e giustizia per Emanuela Orlandi, la cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno del 1983, risucchiata nel tragitto di pochi metri che separa la Basilica di Sant’Apollinare, sede della scuola di musica della ragazza, dalla fermata del bus che avrebbe dovuto riportarla dall’altra parte del Tevere dove quella sera avrebbe cenato con la sua famiglia: le sorelle Natalina, Cristina e Federica, il papà Ercole, messo pontificio, sua moglie Maria, che ancora tenacemente chiede di sapere dove sia Emanuela a suo figlio Pietro.
È nata proprio da un’idea di Pietro l’iniziativa che da anni celebra il compleanno di sua sorella (che domenica compierebbe 56 anni) con un sit-in per cui ogni anno arrivano a Roma attivisti da tutta l’Italia con appesa al collo, o stampata su di una maglietta, quella foto – con cui fu tappezzato all’epoca ogni angolo della capitale – grazie alla quale tutti conoscono la storia della “ragazza con la fascetta”. Fu scattata quella stessa estate, pochi giorni prima di quello che oggi possiamo chiamare col suo nome: un rapimento e non una semplice scomparsa. Emanuela in quella foto indossa una fascetta tra i capelli, nell’immagine ormai iconica in bianco e nero ha perso i colori, quelli della Roma di cui la 15enne romana stava festeggiando lo scudetto appena vinto, pochi giorni prima di sparire nel nulla. Una delle sue passioni, la sua squadra del cuore ma soprattutto la musica erano al centro del suo mondo fatto di lezioni di canto e di piano, e non di torbide frequentazioni come purtroppo è stato insinuato da molti che hanno colpevolizzato la vittima nel tentativo di guadagnarsi la scena entrando nel caso Orlandi come su di un palco.
“La scelta di Piazza Cavour come sede – spiega Pietro Orlandi a FqMagazine – di fronte al Palazzo di Giustizia, è simbolica dal momento che la giustizia è mancata per più di 40 anni. Fa anche parte di quelle strade frequentate da Emanuela, al di là del fiume c’è la sua scuola di musica, di fianco c’è Castel Sant’Angelo, si avvicina insomma a questa vicenda. Proprio lì, davanti al “palazzaccio”, Emanuela avrebbe dovuto incontrare Cristina prima di rientrare a casa per la cena”. Dopo anni di piste cadute nel vuoto e due inchieste archiviate, lo scorso anno, poche ore dopo la morte di Papa Benedetto VI, Città del Vaticano, Stato di cui Emanuela è ancora cittadina, ha aperto la prima inchiesta che a oggi pare non abbia ancora tirato fuori nulla sul destino della ragazza. Un silenzio che si associa a quello sulla commissione parlamentare d’inchiesta approvata pochi mesi fa, e rotto soltanto dalle parole del promotore di giustizia del Vaticano, Alessandro Diddi, di qualche giorno fa all’Ansa: “Continueremo a lavorare – ha dichiarato il titolare dell’inchiesta a cui collabora anche la Procura di Roma – e a differenza dell’Italia noi non abbiamo limiti di tempo, il sistema è più garantista per la persona offesa, finché il caso non è chiuso continueremo a lavorarci”.
“Diddi è un uomo molto scaltro perché il sistema giudiziario vaticano è quello che c’era in Italia prima del 1929, non c’è termine per concludere le indagini preliminari per cui una persona può restare indagata per anni – commenta a FqMagazine Pietro Orlandi – Questo per lui agevolerebbe la parte offesa, cioè noi. Non dice però che così le indagini non finiranno mai perché hanno tutto il tempo di fare come vogliono e questo non ci giova affatto, né a noi né a chi chiede insieme alla mia famiglia di sapere cosa sia successo a mia sorella Emanuela, visto che hanno aperto un’indagine con 40 anni di ritardo. Lui fa passare come una cosa positiva il fatto che interroga una persona ogni non so quanti mesi, ma così potrebbe far durare le indagini all’infinito. Forse sarebbe stato più giusto e rispettoso dire:’Faremo di tutto per arrivare il prima possibile alla verità dopo 40 anni’ e non ‘non abbiamo un limite di tempo’ perché il tempo è nemico della verità. Avere tutto il tempo a disposizione non significa che puoi fare le cose a rilento. Perché, ad esempio, non ha ascoltato e messo a verbale le dichiarazioni delle persone che gli ho indicato come persone a possibile conoscenza dei fatti e e che potrebbero chiarire molti misteri? Perché ha tutto il tempo che vuole o perché preferisce cercare una verità di comodo che allontani la responsabilità da certi ambienti, provando a scaricarla sulla famiglia com’è successo lo scorso luglio?”