Per 33 anni è stato considerato l’arma del delitto, ma “sappiamo che la compatibilità col tagliacarte, dato come possibile strumento contundente è oggettivamente non valida”. E’ la conclusione del criminologo Franco Posa dell’Istituto di neuroscienze forensi. L’arma con cui si crede sia stata uccisa il 7 agosto del 1990 Simonetta Cesaroni negli uffici dell’Aiag in via Poma a Roma, non è compatibile con le ferite sul suo corpo. Questa è l’esito sconcertante a cui è approdato, dopo mesi di analisi e indagini, il professor Posa, consulente della famiglia Cesaroni. Un risultato diffuso dalle telecamere del programma tivù Quarto Grado, condotto su Rete 4 da Gianluigi Nuzzi.
“Si trafigge e si ripassa il tipo di ferita – ha spiegato Posa – che si sta studiando e poi esistono vari campionamenti di dimensioni diverse per verificare lo spazio mancante, sotto micro e macro-scopia e con una serie di passaggi ben codificati: è molto complesso”. In parole più semplici, analizzando al computer le 29 ferite inferte a Simonetta, il professore è stato capace di calcolare con precisione le dimensioni della possibile arma e le sue caratteristiche. “Il tagliacarte in questione è questo – ha detto Posa mostrando quella ritenuta da sempre l’arma del delitto – e una volta posizionato su ogni ferita, vediamo che c’è un ampio spazio non compatibile con l’arma: il tagliacarte è troppo piccolo rispetto alle lesioni, è clamorosamente evidente”.
In pratica, Simonetta sarebbe stata colpita e barbaramente dilaniata con un’arma molto più larga di quella rinvenuta in via Carlo Poma nella stanza numero 3. “Questa è la lama penetrante, questo è lo spaziatore differenziale, vedrete che è più ampio, parliamo di qualche millimetro però è clamorosamente non compatibile”, ha aggiunto il professore per ribadire l’analisi. L’arma del delitto in effetti, per quanto mostrato, non ha i caratteristici margini taglienti tipici del coltello, come mostrano le ferite. Mancano le codette ed è importante perché significa che non si tratta di un coltello né di un tagliacarte. L’arma, a quanto pare, è invece bombata e tondeggiante, da dove proveniva, se non dall’ufficio in cui lavorava la ragazza di Cinecittà che per arrotondare lo stipendio andava saltuariamente a lavorare come contabile anche in via Poma?
L’omicida può averla portata con sé premeditando un omicidio? Il professore con la sua squadra ha fatto un calcolo di ogni ferita grazie a una resina speciale ed è riuscito a valutare le ferite per profondità e violenza di impatto tramite una rielaborazione informatica della colorazione di alcune triplette, ovvero ripetizioni della ferita in punti specifici, e anche della profondità dei fendenti. Da queste ricerche è emerso che l’assassino ha ucciso con particolare violenza ed efferatezza e anche in fretta in punti specifici del corpo. “Bisogna chiedersi perché abbia colpito le arie intime, il pube e la zona sopra il pube”, ha aggiunto Posa. Anche la posizione del corsetto secondo il professore è molto indicativa: il cadavere è stato coperto con un corsetto e questo ha un significato, quello di non voler vedere ciò che ho fatto.”
Il profilo psicologico dell’assassino si delinea in maniera più precisa e chiara: anche dall’analisi degli ematomi sul corpo di Simonetta e di uno in particolare sul collo, da sempre attribuito a un braccio del suo assassino, poggiato lì perché lei non potesse urlare. Ma secondo il professore e le analisi si tratterebbe di ben altro, una catenina oppure di un cavo. Simonetta potrebbe essere stata strangolata e c’è un altro elemento da considerare: le unghie della ragazza, molto lunghe, non sono state repertate. Quello che c’è sotto le unghie potrebbe rivelare il Dna dell’assassino. “Abbiamo strumenti validi – ha concluso Posa – per recuperare quel poco che può essere presente sotto le unghie e i nuovi strumenti scientifici potrebbero svelare la firma dell’assassino 33 anni dopo il delitto”.