di Riccardo Bellardini

Era un giorno di fine anno, e la deputata del Pd Guerra si riferiva al Presidente di turno della Camera, Giorgio Mulé, iniziando il suo intervento con un fiero e provocatorio “Signora Presidente”. E la provocazione ha colto nel segno. Mulé se l’è presa di brutto. Ha sentito la sua mascolinità attaccata. Forse tra le gambe si sarà sentito il coso raggrinzito, gli saranno venuti pure dubbi, chi lo sa. “La mia identità è ben chiara”, ha risposto lui, cercando di tranquillizzare tutti e pure se stesso. Peccato che non sia chiara da secoli quella delle donne, o che più precisamente, non venga per nulla rispettata, perché le donne un’identità forte ce l’hanno, anche se pare invisibile, perennemente sotterrata dalla supponenza maschile, nonostante il graduale cambio di marcia degli ultimi anni.

Questo recente battibecco andato in scena nei palazzi del potere è lo spunto per una riflessione che voglio proporre, una riflessione per cancellare quell’aura di banalità, di cui spesso alcuni fenomeni sono intrisi, un’aura di cui spesso è abile dispensatrice la destra nostrana. Basti pensare al titolo di Libero di alcuni giorni fa, in cui si definiva la premier Meloni, in maniera decisamente shock! (per dirla con Renzi), “Uomo dell’anno”, spacciando un’offesa come provocazione. Io la definisco ‘la premier’, la presidente del Consiglio dei Ministri, e non uso l’articolo maschile, non per chissà quali motivi ideologici, ma semplicemente perché è una donna. Non condivido la sua volontà di essere chiamata al maschile. Perché è una volontà che va contro di lei.

La discriminazione linguistica di genere non è una stronzatella. E’ un fenomeno di rilevanza sociologica. E almeno in questo caso basterebbe poco per cambiare le cose: tenere conto delle parole, delle loro declinazioni al femminile, tener conto dei vocabolari, leggerseli. Ci si fa tanto belli a parlare di orgoglio italiano, delle nostre radici, delle tradizioni, e poi ce ne freghiamo della nostra lingua? I nostri vocaboli, correttamente declinati, rispettano le donne, e spesso e volentieri ce ne freghiamo, anche se inconsapevolmente. Spesso purtroppo sono le stesse donne a perpetuare l’assurda asimmetria. E’ il caso della Direttrice d’orchestra Beatrice Venezi, contestata nella sua ultima apparizione prima del concerto di Capodanno a Nizza. “Niente fascisti all’Opera”, così recitava uno striscione che la contestava. Definire fascista in maniera sprezzante una delle migliori artiste italiane è da condannare. Si può dire piuttosto che la sua collocazione politica viri verso la destra, a giudicare anche da alcune sue affermazioni che fece tempo fa relativamente alla sua professione, sostenendo di voler esser chiamata Direttore d’orchestra piuttosto che Direttrice. Come a sottolineare una carenza di autorevolezza, di prestigio, di valore, qualora fosse stata chiamata nel secondo modo.

Pensiamo al caso di Lidia Poët, storica avvocatessa la cui iscrizione all’Ordine, a fine Ottocento, fu revocata, poiché quella di avvocato, anche e soprattutto per questioni lessicali, era considerata indiscutibilmente una professione maschile. Cosa ne penserebbe lei? Alla fine, in tarda età riuscì ad iscriversi, ma la sua lotta è servita?

La volontà di Venezi, quella di Meloni, quella di altre donne che la hanno già espressa in passato – e che la esprimeranno in futuro – di essere chiamate rigorosamente al maschile io non la rispetterò perché rispetto loro, perché rispetto la loro identità. E invito l’opinione pubblica e la stampa che ancora non lo fa a fare altrettanto. Mulè si sente colpito, attaccato, ingiuriato se viene chiamato signora, ed è giusto che un giorno una donna si senta colpita, attaccata, ingiuriata se viene chiamata signore. Stop. Finisce qui questo mio post che la destraccia d’Italia potrebbe bollare come un inutile sermone radical chic. Dimenticate tutto. I problemi veri sono altri, ma mettetevi l’anima in pace: quali che siano, rimarranno irrisolti.

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