I cento giorni passati in Medio Oriente non si sono limitati a smuovere il panorama geopolitico. Non hanno semplicemente rimescolato le carte dei vari protagonisti: Israele, i palestinesi, l’Occidente, il mondo arabo e islamico, il Sud Globale.
E’ accaduto qualcosa di più incisivo, cruciale. Che tocca il sentire profondo dell’opinione pubblica. Particolarmente tra le giovani generazioni occidentali, specie nell’area anglofona.
I cento giorni hanno fatto riemergere anche ombre del passato. Sono paradossali certe grosse dimenticanze storiche. In questi giorni, in cui il Sudafrica ha portato Israele davanti alla corte dell’Aja, nessuno ha voluto ricordare che al tempo in cui i bianchi sudafricani tenevano sotto il tallone i neri sudafricani, Israele era uno stretto alleato del regime razzista, anche in termini di collaborazione nell’industria nucleare.
Nel rimescolare tutto i cento giorni azzerano le retoriche e delineano con crudezza la realtà profonda. C’è un primo dato, che non sarà più possibile rimuovere. Nel sentire dell’opinione pubblica planetaria l’attacco barbaro di Hamas del 7 ottobre, con i suoi episodi disumani, rimarrà intrecciato per sempre nelle menti e negli animi con il brutale massacro dei civili di Gaza, deciso dal governo israeliano. Staranno congiunti insieme nella retina dell’occhio planetario. I milleduecento uccisi e torturati e i duecentocinquanta ebrei rapiti del 7 ottobre e i 24.000 civili gazawi sterminati nel trimestre successivo.
Si è creata in questi mesi la sensazione profonda che il dolore non è scindibile. Quando Steven Spielberg presenterà il documentario che sta preparando sugli orrori commessi il 7 ottobre da Hamas e altre milizie islamiche, sentirà battersi sulla spalla e chiedere: “Dove sono le immagini dei diecimila bambini di Gaza arrostiti dalle bombe israeliane, dove sono le donne sanguinanti estratte dalle macerie, dove i vecchi mutilati dagli scoppi?”.
Perché non esiste un dolore di serie A e un dolore di serie B. Non esistono orrori importanti ed orrori che siano semplici scarti della storia. Nel Primo Testamento (inteso qui come grande libro di cultura dell’Antico Oriente) si legge che il sangue dell’assassinato ha una voce che “grida” al cielo dal suolo! Ovunque sia versato, questo grido dal basso raggiunge il cielo.
Ecco perché è sorta nell’opinione pubblica un’onda di ribellione allo status quo, che pretende di lasciare inalterata la ferita cancerogena della questione palestinese. Ci sono masse crescenti che non vogliono andare a rivangare errori e colpe di settant’anni passati. Vogliono che la ferita sia guarita con la realizzazione della pari dignità di due Stati: Israele e Palestina. Come sostiene sin dall’inizio della crisi il presidente Biden. Come ha sottolineato recentemente papa Francesco davanti al corpo diplomatico, auspicando che la comunità internazionale “percorra con determinazione la soluzione di due Stati, uno israeliano e uno palestinese”, compreso uno statuto speciale per la città di Gerusalemme.
Chi tace o elude la questione non è in buona fede. Su questa urgenza di guarigione definitiva della situazione l’opinione pubblica non vuole essere ingannata. Non è Israele ad essere isolato nel mondo, è la politica cinica del governo Netanyahu ad avere perso ogni credibilità e a creare il vuoto intorno a sé. Chi ha proclamato con totale chiarezza di garantire che con il suo governo “non ci sarà mai” uno stato palestinese, non è percepito come alfiere di libertà ma come chi esige che i palestinesi restino in ginocchio.
E tuttavia, proprio perché questi cento giorni toccano nodi profondi, è indispensabile affrontarli. Sulla rivista dei gesuiti americani America è stato pubblicato un articolo toccante del rabbino franco-israeliano David Meyer, in cui viene messa in risalto la necessità (per la Chiesa cattolica, ma vale in fondo per tutti) di prendere atto e tenere conto della “fragilità ontologica di Israele e del popolo ebraico”. Questo significa saper ascoltare il grido esistenziale ebraico senza rifugiarsi nella neutralità diplomatica.
E’ una riflessione indispensabile non solo alla luce della Shoah ma anche alla luce della secolare persecuzione antigiudaica, praticata con ferocia legale e culturale (oltre agli scoppi periodici di violenza pura) nel mondo occidentale cristiano. Ed è una riflessione da condurre continuamente.
Eppure, quando si approfondiscono i nodi, non è possibile fermarsi a metà. Chi chiede ascolto, chi ha diritto all’ascolto, non può non volgere il suo orecchio al dolore dell’altro. Se ha valore la “fratellanza” universale, a cui un pontefice come Francesco ha voluto dedicare un’enciclica, quella fratellanza diventata anche filo conduttore del primo accordo mai firmato tra i cattolici e i seguaci del Corano… se nel pieno della peste del Covid è stato ricordato “o si è fratelli o crolla tutto”, è possibile chiudersi al grido di angoscia dell’altro?
E’ questo il punto che si impone in questa crisi drammatica. Ed è una domanda ineludibile. Un popolo come quello ebraico, che ha tanto sofferto, faticato, lottato per costruire un suo focolare, può negare lo stesso diritto ad avere una patria statuale al popolo palestinese che già stava da secoli sulla sua terra?
In questi mesi, in cui si è respirato l’orrore nei kibbutzim aggrediti da Hamas ed in cui si continua a respirare l’orrire della carneficina attuata a Gaza dall’esercito israeliano, appare chiaro che l’unico modo per spezzare la spirale di violenza, vendetta, rabbia e rappresaglia senza fine, sarà il coraggio di aprire gli occhi guardando anche l’orrore che investe l’altro. Chinandosi sulle ferite dell’Altro.