E intanto Carletto. Già: mentre al Meazza si affrontavano Milan e Roma, le squadre della sua storia da calciatore, Ancelotti andava a vincere a Riyad la Supercopa di Spagna, con un eloquente 4-1 sul Barcellona, conquistando il trofeo numero 26 da allenatore – agganciati al sesto posto in classifica Mourinho, Scolari e Stein -, l’undicesimo alla guida del Real Madrid e dimostrando, ancora una volta, la sua abilità nel proporre calcio a trecentosessanta gradi. Le due partite giocate in Arabia sono esemplari: nel 5-3 all’Atletico Madrid, molto possesso palla (56,4% e 910 passaggi), mentre nel 4-1 al Barça, appena 42,7% di gestione, ma capacità impressionante di verticalizzare e sfruttare l’arma micidiale del contropiede, grazie anche alla serata da urlo di Vinicius, tornato protagonista con una tripletta.
Si dirà: bella forza quando gestisci un gruppo di star. Si ferma la vena realizzativa di Bellingham – ma non la qualità dell’inglese, sublime un assist per il brasiliano – ed ecco che Vinicius raccoglie il testimone. Tutto vero, ma è proprio nella gestione delle risorse umane che Ancelotti si conferma il miglior manager al mondo in assoluto. Nessuno come lui, capace anche in una serata da sballo come quella araba di mettere in riga lo stesso Vinicius (“non mi piacciono i colpi di tacco e gliel’ho detto”) e di giostrare la formazione senza intaccare le sensibilità, sempre urticanti, dei giocatori. Nel suo calcio in perenne movimento, il Real ha trovato la sua zona confort nel centrocampo a rombo, con Tchouameni vertice basso, Bellingham trequartista e la coppia Valverde-Kroos sulle corsie laterali. Con un ricambio di lusso pronto all’uso: il croato Luka Modric, in viaggio verso i 39 anni, ma sempre sublime e, soprattutto, sempre con voglia di essere sul pezzo.
Il quotidiano spagnolo As, che esalta le qualità di Ancelotti, riporta una frase che sarebbe piaciuta a grandissimi scrittori di calcio come Osvaldo Soriano e Gianni Mura: “Sono in una nuvola, ma dalle nuvole si può anche scendere”. E’ la cultura delle origini che accompagna Ancelotti da sempre, figlio di un mondo contadino che non ha mai rinnegato e che presto vedremo raccontato in un film con un grande regista italiano dietro la macchina da presa. Anche ora che è ricco, famoso e celebrato, Carletto torna sempre al suo universo di sudore, fatica e buon senso.
Allenare due volte il Real, vincere e tenere botta alla smisurata voglia di Champions di Florentino Perez – diventato grazie a Carletto con 33 trofei complessivi il presidente più vincente della storia dei Blancos -, è possibile solo se, oltre ad essere un profondo conoscitore di calcio, possiedi nervi saldi e lucidità. L’abilità di Ancelotti è quella di conquistare un trofeo, festeggiarlo con un sigaro e ripartire. Giovedì si torna sulla terra: ottavi di Copa del Rey in casa di un Atletico Madrid che vorrà vendicare il ko in Arabia. Domenica riecco la Liga, con un match morbido contro l’Almeria che potrebbe portare in vetta i Blancos, impegnati nel duello per il titolo con il sorprendente Girona, fermato domenica dallo stesso Almeria. Poi il 13 febbraio andata degli ottavi di Champions contro il Lipsia. Il Real è questo: una giostra in continuo movimento, che ti fa salire sulle nuvole, ma può riportarti bruscamente a terra.
Fresco di contratto rinnovato fino al 30 giugno 2026, con tanti saluti alla panchina del Brasile, Ancelotti punta ora campionato e Champions, senza mollare, ovviamente, la Copa di Spagna. Vincere è l’unica cosa che conta al Real. E’ la garanzia di sopravvivenza per un coach. Carlo ha i nervi saldi per continuare a girare sulla giostra. Il Real chiuderà la sua carriera: salutare il palcoscenico, guidando il club più famoso del pianeta, è l’uscita dalla scena perfetta. Una sequenza da cinema. Avanti così, cavalcando le nuvole, ma guardando sempre in basso, con il paracadute sulle spalle.