Economia

Il Tar inguaia l’Ilva: Snam può staccare il gas. Pronto il ricorso per evitare la chiusura. L’acciaieria è morosa per 170 milioni di euro

Snam può staccare il gas all’ex Ilva. Lo ha deciso il Tar Lombardia con un’ordinanza che ora Acciaierie d’Italia, gestore degli stabilimenti di Taranto, proverà a impugnare al Consiglio di Stato ritardandone l’esecutività e guadagnando un po’ di tempo per tentare di trovare un nuovo fornitore. La decisione dei giudici amministrativi inguaia il siderurgico, che da oltre un anno ha sfruttato il fornitore di ultima istanza dopo la separazione da Eni per i debiti non pagati. E ora la situazione si è riproposta con Snam, che avanzata quasi 180 milioni di euro di pagamenti (109 dei quali con fatture già scadute e altri 69 per i mesi di novembre e dicembre).

“Costi scaricati sulle casse pubbliche” – Così a ottobrementre il presidente di Acciaierie Franco Bernabè ammetteva che non c’erano neanche i soldi per pagare la caparra di un nuovo contratto – il fornitore aveva annunciato la “discatura” dei punti di riconsegna (cioè la chiusura dei rubinetti, che fermerebbe la produzione) e Acciaierie d’Italia si era rivolta al Tar per ritardarla. I giudici avevano sospeso lo stop alla fornitura e fissato per il 10 gennaio l’udienza di merito, pubblicata oggi. A valle della quale hanno dato ragione ad Arera. Impietoso il giudizio sul modus operandi di Acciaierie d’Italia: “Non si può continuare a far gravare sulla fiscalità generale che sostiene la spesa per il servizio di default trasporto (come rilevato da Arera), parte dei costi indispensabili per lo svolgimento dell’attività di impresa” di Acciaierie, scrivono i giudici.

Non conta che Ilva sia di “interesse strategico” – Ad avviso dei giudici “la mancata individuazione del fornitore sul libero mercato del gas naturale è di fatto imputabile ad una valutazione di convenienza economica” dell’ex Ilva, “frutto quindi di libere scelte imprenditoriali” , e l’azienda, nel procrastinare l’assunzione degli impegni economici, abbia mirato solo a “salvaguardare” la “posizione imprenditoriale” nonostante l’adeguata fornitura di gas naturale sia indispensabile per lo svolgimento delle proprie attività”. Non solo: “La tutela cautelare non può essere strumentalizzata al fine di soddisfare interessi puramente economici delle parti in giudizio, pur in considerazione del ruolo assunto dalla stesse nella gestione di rilevanti interessi pubblici”, ovvero la definizione di Ilva di “stabilimenti di interesse strategico nazionale”.

Il mare di debiti con Eni e Snam – E ancora – notano i giudici Antonio Vinciguerra, Mauro Gatti e Luca Iera – Acciaierie d’Italia è in “mora nel pagamento di un’ingente somma dovuta per la fruizione del servizio di default trasporto chiesto e poi prorogato, oltre l’ordinario regime temporale, da Arera e poi di fatto ulteriormente prorogato”. Il totale ammonta a circa 170 milioni di euro, più quanto ancora dovuto a Eni. Il Tar sottolinea infatti il “mancato rispetto” da parte di Acciaierie d’Italia “del piano di rientro previsto da un accordo transattivo stipulato” che riguarda i debiti del 2022. Lo stop non sarà immediato, visto l’annunciato ricorso al Consiglio di Stato. E in ogni caso, una decisione sulla discatura non potrà prescindere dalle interlocuzioni tra Arera e Snam, con l’Autorità che avrà l’ultima parola.

La crisi a un bivio – La pronuncia dei giudici è tuttavia chiara: l’Ilva è spalle al muro. Avrà tempi molto contingentati – e dovrà sperare nella concessione della sospensiva cautelare da parte del Consiglio di Stato per guadagnare qualche settimana così da risolvere la crisi societaria nata dal disimpegno di ArcelorMittal e contestualmente trovare i soldi per saldare i debiti e dare garanzie a un nuovo fornitore. La strada è in salita e certifica come lo stallo degli ultimi mesi da parte dei soci, nonostante la pronuncia del Tar fosse quasi scontata, stia portando l’acciaieria a schiantarsi. Dopo il divorzio sancito lo scorso lunedì dal no di Mittal a un rifinanziamento di 320 milioni, il governo è alle prese con la ricerca di una separazione consensuale ma il colosso franco-indiano sta tentando l’ultimo rilancio, chiedendo una sorta di buonuscita da circa 400 milioni per vendere le sue quote.