“Bugiardi”. “Imbroglioni”. “Delinquenti”. Non si è risparmiato con gli insulti, Donald Trump, in uno degli ultimi comizi prima del voto nei caucuses dell’Iowa. A Indianola, una trentina di chilometri a sud della capitale Des Moines, Trump ha parlato a una piccola folla di sostenitori, che hanno sfidato vento e temperature glaciali (oltre trenta gradi sottozero) per ascoltarlo. L’ex presidente ce l’ha con chi, a suo giudizio, “non vede l’ora di distruggere il movimento MAGA”. Trump non fa nomi né cita circostanze precise. Parla, genericamente, di possibili frodi elettorali e del tentativo di usare il meteo sfavorevole per dissuadere la gente dell’Iowa dall’andare a votare. Lo sfogo svela il nervosismo di Trump, il timore che dalle urne, lunedì sera, non esca il trionfo atteso.
Alle sette di stasera, lunedì 15 gennaio, alcune migliaia di repubblicani si ritroveranno in circa 1.700 precincts – chiese, scuole, palestre, pub, case private – per votare il loro candidato alla presidenza degli Stati Uniti e scegliere i 40 delegati da mandare alla Convention di Milwaukee del prossimo luglio. È dal 1972 che l’Iowa è il primo Stato americano a votare nel processo che porta alla selezione del presidente. I caucuses sono diversi dalle primarie perché si vota solo dopo essersi dati appuntamento in un certo luogo e a una certa ora (nelle primarie si vota tutto il giorno, spesso anche per posta). A differenza delle primarie, il voto è qui gestito dai partiti e non dallo Stato. La gente dell’Iowa è molto orgogliosa dei suoi caucuses, che rivelerebbero senso civico e particolare passione politica. Da ormai molti anni c’è però chi critica la scelta di organizzare il primo voto presidenziale in questo Stato del Midwest di poco più di 3 milioni di persone, rurale, bianco, scarsamente rappresentativo degli Stati Uniti, cui viene attribuita l’enorme responsabilità di inaugurare la scelta del leader più potente al mondo. C’è da dire peraltro che gli elettori dell’Iowa non hanno mai dimostrato particolare doti di preveggenza. Soltanto nel 55 per cento dei casi il democratico vittorioso in Iowa è stato poi il candidato effettivo del partito. La percentuale scende al 43 per cento nel caso dei repubblicani. Anche per questa scarsa rappresentatività (oltre che per la risicata presenza sul territorio) i democratici hanno deciso di spostare i caucuses dell’Iowa a marzo, preferendo iniziare le primarie il 3 febbraio in South Carolina.
In mezzo a ghiaccio e neve sono quindi rimasti solo i repubblicani. La campagna è stata negli ultimi giorni funestata dal maltempo, con eventi annullati, altri che si sono potuti svolgere con i candidati collegati da remoto, altri ancora iniziati in pesante ritardo e con un numero limitato di presenti. Per l’economia dello Stato si è trattato di un colpo duro. Hotel, ristoranti, taxi e servizi vari, che aspettano ogni quattro anni la discesa di migliaia di persone (soprattutto giornalisti) per assistere allo spettacolo della politica, sono rimasti a corto di clienti. A girare per lo Stato, spesso con mezzi di fortuna, sono rimasti dunque soprattutto i candidati. Alla fine, ne sono rimasti tre in lizza effettiva. Donald Trump, il grande favorito. Nikki Haley, l’ex governatrice del South Carolina ed ex ambasciatrice all’Onu (proprio durante la presidenza Trump). Ron DeSantis, attuale governatore della Florida. Dopo mesi di attacchi più o meno civili, la campagna è deflagrata in una serie di colpi durissimi, che nel caso di Trump hanno preso anche la forma di insulti nei confronti dei suoi avversari. Haley e DeSantis, che sinora avevano evitato di criticare troppo apertamente l’ex presidente (nel partito repubblicano, chi attacca Trump rischia di non riguadagnare più il sostegno della sua base turbolenta e affezionatissima), hanno iniziato ad articolare una serie di riserve pesanti alla possibilità di una sua rielezione. In particolare, il carattere troppo divisivo di Trump e i guai giudiziari che rischiano di abbattersi sulle sue chance di riconquista della Casa Bianca.
I comizi di questi giorni in Iowa hanno mostrato tre candidati con profili politici e umani molto diversi. Trump è il candidato capace di battere strade parallele, dentro e fuori il sistema. È dentro il sistema perché è stato presidente, ha alle spalle due campagne elettorali, può esibire quanto fatto durante i quattro anni alla Casa Bianca. Anzitutto i numeri della sua economia, con la disoccupazione sotto il 4 per cento, l’inflazione all’1 per cento, il tasso di povertà più basso della storia, l’indice di ricchezza delle famiglie in salita, alti livelli di occupazione per donne e afro-americani. Ma l’America di Trump, ha spesso detto l’ex presidente in queste settimane di comizi in Iowa, era anche un Paese senza guerre, rispettato all’estero, capace di difendere le sue frontiere e di assicurare la sicurezza dei cittadini e la difesa di valori e cultura nazionali. Trump è però anche capace di essere eversivo, di stare fuori del sistema. E così in questi giorni, ha offerto gli scorci della politica radicalmente populistica e reazionaria che potrebbe seguire nel caso di un ritorno alla Casa Bianca. Trump pensa alla più gigantesca operazione di deportazione di migranti illegali nella storia americana (ancora più radicale della Operation Setback, l’azione di rastrellamento ed espulsione di migliaia di senza documenti che si svolse a metà anni Cinquanta sotto la presidenza di Dwight Eisenhower). Ma Trump pensa anche di bloccare i finanziamenti per le guerre all’estero (vedi Ucraina) e di portare gli Stati Uniti fuori della Nato. Tra il detto e non detto, il tycoon ha anche accennato alla possibilità di sottoporre a procedimenti disciplinari quei funzionari dell’amministrazione, in particolare al Dipartimento alla Giustizia, che hanno lavorato per metterlo sotto inchiesta. Sempre sul fronte interno, ha spiegato, non ci saranno tagli al welfare e alla sanità pubblica.
In queste settimane di campagna in Iowa, Trump ha insomma riproposto alcuni degli elementi che ne hanno accompagnato l’ascesa politica a partire dal 2015. Il suo essere fuori dalle divisioni tradizionali della politica. La rivendicazione dell’unicità del suo ruolo, che solo in parte può essere ricondotto al campo repubblicano (il “partito” non è quasi mai presente nelle parole di Trump e anche il suo elettorato, prima di essere repubblicano, è trumpiano). L’appello diretto all’elettore e l’esaltazione del ruolo salvifico, quasi messianico, della sua figura (“con me alla Casa Bianca – ha per esempio spesso ripetuto – la guerra in Ucraina si concluderà nel giro di qualche ora”). Rispetto a Trump, Nikki Haley e Ron DeSantis sono figure più riconoscibili. L’ex governatrice del South Carolina rivendica l’appartenenza a quella tradizione repubblicana che da Ronald Reagan arriva fino ai neocons di George W. Bush. È quindi a favore di un forte ruolo internazionale e militare degli Stati Uniti (è l’unica, tra i candidati repubblicani, a voler continuare nell’assistenza all’Ucraina). Pensa a tagli consistenti alla spesa sociale. Mantiene un profilo moderato sui “social issues”, in particolare sull’aborto (è personalmente contraria all’interruzione di gravidanza, ma è contraria anche a crociate religiose e pensa che la questione debba essere lasciata ai singoli Stati). Fede nel libero mercato, tecnocrazia, avversione al governo federale, slancio reazionario e pre-moderno sui diritti e la scienza (dall’aborto alla cultura woke alla questione transgender) hanno invece caratterizzato la proposta politica di Ron DeSantis, che qui in Iowa si è scatenato soprattutto sul tema del lockdown e della “dittatura” delle aziende farmaceutiche (è arrivato a minacciare di arresto Anthony Fauci, il responsabile sanitario USA ai tempi della pandemia). Se Haley ha enfatizzato la natura moderata e di establishment della sua candidatura, DeSantis ha cercato di proporsi come il candidato anti-establishment e anti-lobbies.
Gli ultimi giorni di campagna hanno rivelato una significativa novità che riguarda proprio DeSantis e Haley. Se per mesi è stato DeSantis a occupare il secondo posto nei sondaggi nel conservatore Iowa, ovviamente dopo Donald Trump, più di recente Haley è parsa consolidare la sua posizione e guadagnare alcuni punti. Il ritiro dalla corsa per la presidenza di Chris Christie mette infatti a disposizione di Haley il voto più moderato e di quei repubblicani che per motivi diversi non gradiscono la candidatura di Trump. Ieri è per esempio arrivata la notizia che l’ex governatore repubblicano del Maryland, Larry Hogan, un moderato, ha annunciato il suo sostegno a Haley (che un tempo sarebbe stata considerata come una repubblicana di destra, ma che nell’attuale partito repubblicano diventa una moderata). Trump ha fiutato il pericolo e ha fatto partire un fuoco di fila di attacchi contro Haley. In un comizio, ieri, l’ex presidente ha spiegato che Haley è stata “sleale” nei suoi confronti, che è “impreparata” per diventare presidente e che non è “abbastanza conservatrice”. Un sondaggio Des Moines Register/NBC News/Mediacom reso pubblico sabato sera, mostra Donald Trump avanti nelle preferenze di voto, con il 48 per cento dei consensi, seguito da Nikki Haley al 20 per cento e Ron DeSantis al 16. Haley ha quindi conquistato la seconda posizione. Un piazzamento buono in Iowa potrebbe rilanciare le sue chance nel più moderato New Hampshire (il secondo Stato a votare, il 23 gennaio), aprendo prospettive imprevedibili. Di qui il nervosismo di Trump, che pensava a una corsa veloce e trionfale verso la candidatura e che ora vede invece sorgere i primi, inattesi ostacoli.