Errori marchiani o presunti tali. Polemiche a non finire. Allenatori insofferenti, presidenti esasperati, tifosi fuori controllo. Si viviseziona ogni episodio, si estrapolano i fermoimmagine, si distorce la realtà. Ormai è una caccia alle streghe, si gioca in un clima irrespirabile. Per fortuna Gianluca Rocchi, il designatore della Serie A, ha la soluzione: “Vietato parlare di errori arbitrali nelle 12 ore successive alla partita”. Siamo alla censura pura: la “legge bavaglio” del calcio italiano.
Non è uno scherzo, il numero uno dei fischietti ha detto proprio così: “È una mia richiesta, sicuro, poi non dipende da noi. Non parlare degli arbitri nelle dodici ore successive alla partita vorrebbe dire limitare le polemiche del 90%”. Una proposta sconcertante, che vorrebbe sostanzialmente imporre ai tesserati il divieto di commentare gli episodi, pena chissà quale sanzione. Una dichiarazione grottesca che sintetizza tutto ciò che non va nella classe arbitrale italiana, detta da chi la rappresenta alla perfezione.
Eppure nella stessa conferenza di metà campionato c’erano tanti spunti di buon senso e condivisibili. È vero, come ha denunciato Rocchi, che la situazione di recente sembra piuttosto sfuggita di mano. Si protesta per tutto, gli errori – che sono fisiologici, fanno parte del gioco, nessuno ha mai preteso il contrario –, anche i più minimi e fisiologici, vengono ingigantiti come casi nazionali. Ma se ciò succede è proprio perché si è incrinata quel poco di fiducia, se mai ce n’è stata, nei confronti della classe arbitrale e soprattutto del Var, il cui avvento era stato salutato come l’inizio di una nuova era, fatta di obiettività e niente più di sudditanza, e invece è finito per rimanere invischiato nelle stesse, identiche dinamiche che prima riguardavano i direttori di gara. Decisioni spesso contradditorie, sospetti continui, accuse di favoritismo.
Seriamente, come se ne esce? Di certo non come suggerisce Rocchi, come se il problema non fossero gli errori ma chi discute gli errori. Se anche fosse vero che i commenti spesso oltrepassano la misura, la libertà di dire anche una cosa sbagliata non può essere messa in discussione. Semmai proprio il contrario: parlandone sempre di più, e possibilmente spiegando. Nonostante tutte le critiche, l’Aia ha fatto grossi passi avanti negli ultimi anni: le conferenze con squadre e giornalisti, la decisione di far ascoltare i dialoghi, la trasmissione Open Var che, con tutti i suoi limiti, resta il prodotto più innovativo presentato dal calcio in tv di recente. Sono tutti passi che vanno nella giusta direzione, che è quella dell’apertura. Prendiamo il tanto discusso episodio del gol dell’Inter contro il Verona: l’audio in cui l’arbitro Fabbri spiega al Var Nasca di aver visto Duda alzarsi e rituffarsi a terra per far fermare il gioco ha fornito una chiave di lettura che magari si può non condividere (il contatto di Bastoni poteva comunque essere sanzionato) ma almeno ha chiarito l’interpretazione del direttore di gara e sgombrato il campo da ogni sospetto di malafede. Lo avessimo ascoltato in diretta, probabilmente ci saremmo risparmiati un weekend di polemiche.
Quando invece Rocchi invoca la censura e ridimensiona il Var (“Deve intervenire solo per cose evidenti, non è la moviola”), suggerisce un ritorno al passato che fa paura. La logica dell’arbitro come giudice supremo e imperscrutabile, e non come semplice strumento al servizio del gioco, che dovrebbe ricorrere al Var tutte le volte che ha un dubbio, e spiegare apertamente le sue decisioni. È la stessa logica del resto dell’uomo solo al comando, cioè Rocchi stesso, molto vicino al presidente della FederCalcio, Gabriele Gravina, che – non è un mistero – lo vorrebbe anche nel doppio ruolo di presidente dell’Aia, oltre che designatore della Serie A (ma è opportuna questa contiguità fra la politica del pallone e chi dovrebbe essere per antonomasia organo terzo?). Solo la trasparenza salverà il calcio italiano dalle polemiche. Non questi rigurgiti di autoritarismo arbitrale.