Riformare di nuovo la prescrizione obbligherà gli uffici giudiziari a una “completa riprogrammazione delle attività” e “riorganizzazione dei ruoli di udienza” per far fronte alle nuove regole. Tutto tempo di lavoro che verrà sottratto “alla trattazione delle udienze, alla stesura delle motivazioni e agli adempimenti di cancelleria”, con “inevitabili ricadute negative sulla durata dei giudizi e lo smaltimento dell’arretrato”. E un rischio su tutti: “Pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi negoziati con la Commissione europea” nell’ambito del Pnrr, che impongono di ridurre, entro il giugno 2026, la durata media del processo penale del 25% rispetto al 2019. Ad affermarlo è il Consiglio superiore della magistratura nella bozza di parere sul disegno di legge che modifica la prescrizione, appena approvato dalla Camera con i voti della maggioranza di centrodestra insieme ad Azione e Italia viva (173 sì e 79 no).
Il testo parlamentare – frutto dell’unificazione di quattro proposte – riscrive la materia per la quarta volta in meno di sette anni: spariscono sia la riforma Bonafede del 2019, che bloccava la corsa del termine di estinzione del reato alla sentenza di primo grado, sia l’improcedibilità affiancatale nel 2021 dalla legge Cartabia, in base alla quale è il processo (e non il reato) a evaporare se dura più di due anni in Appello e di un anno in Cassazione. Se il ddl passerà anche al Senato, si tornerà a un meccanismo simile a quello della riforma Orlando, in vigore dall’agosto 2017 alla fine del 2019: la clessidra dell’estinzione tornerà una soltanto e correrà per tutto il procedimento, ma resterà ferma per un massimo di due anni dopo la sentenza di primo grado e per un massimo di un anno dopo quella di secondo grado (nella Orlando entrambi i periodi erano di 18 mesi). Se però il tempo extra si esaurisce prima che arrivi la decisione del grado successivo, il “bonus” si azzera: tutto il periodo di sospensione viene di nuovo computato ai fini della prescrizione. Lo stesso accade se la sentenza d’Appello, pur arrivando “in tempo”, assolve l’imputato condannato in primo grado.
Questa ennesima modifica, avverte il Csm, manderà in tilt le Corti d’Appello e la Cassazione, che avevano organizzato il lavoro secondo un criterio ben preciso: evitare l’improcedibilità dei giudizi sui reati commessi dal 1° gennaio 2020, quelli cioè a cui si applica la riforma Cartabia. Significa che tendenzialmente i fascicoli più recenti vanno trattati prima degli altri, perché i relativi processi devono concludersi entro un termine prestabilito. Con la nuova legge non sarà più così: le priorità andranno ribaltate e i calendari d’udienza riformulati. Come? La risposta non è semplice, anzi è complicatissima. In base ai principi generali, infatti, se la legge in vigore al tempo del reato e quelle successive sono diverse, si applica sempre la più favorevole al reo. Ma domani le discipline che si troveranno (potenzialmente) a coesistere saranno addirittura cinque: la ex Cirielli del 2005, la Orlando, la Bonafede, la Cartabia e la nuova riforma ancora senza nome. Qual è la più “conveniente” per gli imputati? Dare una risposta a priori è impossibile. L’unica eccezione forse è la legge dell’ex ministro della Giustizia 5 stelle, che essendo la più “severa” finirà quasi sempre nel cestino. Per il resto è tutta un’incognita: secondo la Cassazione, infatti, il confronto tra i diversi regimi (per individuare il più favorevole) va fatto non in astratto ma in concreto, e può avere esito diverso per ogni processo e addirittura per ogni singola imputazione nell’ambito dello stesso giudizio.
Per questo, sottolinea l’organo di autogoverno della magistratura, se il ddl non cambierà la riorganizzazione degli uffici sarà “molto onerosa“. Così com’è, infatti, la riforma “renderebbe necessario l’accesso materiale a numerosi fascicoli cartacei, con inevitabile gravoso impegno per il personale amministrativo e dei magistrati”, si legge nel parere approvato all’unanimità dalla Sesta Commissione (presidente il giudice genovese Marcello Basilico, relatore il pm palermitano Dario Scaletta) e all’ordine del giorno del plenum di mercoledì. Il tutto, si aggiunge, “nel contesto di una realtà giudiziaria caratterizzata da una situazione di sovraccarico delle pendenze e da rilevanti scoperture di organico del personale“. Il documento del Csm, quindi, si allinea alla posizione dell’Anm e una lettera già inviata al ministro della Giustizia Carlo Nordio da tutti e 26 i presidenti delle Corti d’Appello italiane, che avevano chiesto di prevedere una norma transitoria, cioè una clausola per chiarire l’ambito di applicazione temporale della nuova riforma e risolvere alla radice i problemi di interpretazione. Il Guardasigilli e la maggioranza però li hanno ignorati: gli emendamenti delle opposizioni che chiedevano di introdurla sono stati respinti. “Evidentemente al ministero della Giustizia non comprendono i danni che stanno per produrre. Oppure in questa azione politica c’è la malafede: forse il governo i soldi del Pnrr non li vuole perché non sa come spenderli”, ha attaccato Valentina D’Orso, capogruppo M5s in Commissione Giustizia.