La strada dell’Ilva è segnata: va verso l’amministrazione straordinaria. Il governo ha preparato il terreno alla definitiva rottura con ArcelorMittal, il socio privato di Acciaierie d’Italia che gestisce il siderurgico con la pubblica Invitalia, approvando un decreto in Consiglio dei ministri che rafforza le procedure dell’amministrazione straordinaria, in particolare sulla continuità aziendale e l’occupazione. Dopo il via libera Palazzo Chigi ha spiegato che il decreto prevede “garanzie di cassa integrazione straordinaria”, dalla quale vengono “esclusi” i lavoratori “impegnati nella sicurezza e nella manutenzione degli impianti, per consentire che restino operativi”. Confermate anche le tutele per le piccole e medie imprese creditrici.
La riunione con Meloni – La mossa del governo – maturata in una riunione tra Giorgia Meloni e i ministri che seguono il dossier (Fitto, Giorgetti, Urso e Calderone) – arriva alla vigilia di un nuovo round con Mittal dopo la rottura di lunedì 8 che ha aperto la strada al definitivo divorzio, visto che il socio privato e Invitalia sono in stallo da mesi sul rifinanziamento di Acciaierie d’Italia. Mittal – che sta investendo oltre 1 miliardo di euro per decarbonizzare l’impianto di Dunkerque in Francia – si rifiuta di partecipare all’aumento di capitale, anche da una posizione di minoranza, e si è detta disponibile a versare al massimo 200 milioni di euro per l’acquisto degli asset, passaggio cruciale per garantire bancabilità alla società.
L’inizio dell’avventura – L’acciaieria, commissariata già una volta nel 2012 dopo il sequestro degli impianti nell’inchiesta Ambiente Svenduto che travolse la gestione Riva, è quindi a un passo dal tornare al punto di partenza. La gara bandita dal governo Renzi e chiusa dall’esecutivo Gentiloni, con Carlo Calenda al ministero dello Sviluppo Economico, aveva assegnato gli impianti ad ArcelorMittal (insieme a Marcegaglia). Il colosso franco-indiano dell’acciaio aveva avuto la meglio sulla cordata Acciaitalia – composta da Jindal, Arvedi, Cassa Depositi e Prestiti e Delfin di Leonardo Delvecchio – nonostante il parere negativo dei tecnici. Ma il bando era strutturato in maniera tale da dare grande importanza alle cifre per l’affitto degli impianti.
Tutte le tappe – Sotto la gestione di ArcelorMittal, lo stabilimento di Taranto ha via via ridotto la sua capacità produttiva fino a toccare il record negativo di 3 milioni di tonnellate prodotte nel 2023. Cinque anni fa, il colosso franco-indiano tentò addirittura una fuga dopo l’abolizione dello scudo penale, aprendo una guerra legale con Ilva in as (ancora proprietaria degli impianti) risolta poi con la pax che ha portato alla costituzione di Acciaierie d’Italia, partecipata al 38% da Invitalia, controllata dal ministero dell’Economia. Negli ultimi due anni, la società ha accumulato centinaia di milioni di euro di debiti nei confronti dei fornitori, a iniziare da Eni e Snam che hanno garantito il gas all’acciaieria. Negli scorsi mesi, Invitalia ha lamentato a gran voce come il management di AdI, in testa l’ad Lucia Morselli, espressione di Mittal, abbia tenuto nascosti alcuni parametri societari e perfino il memorandum of understanding firmato con il ministro Raffaele Fitto.
La rottura degli ultimi mesi – Il resto è storia recente: il rifiuto a ricapitalizzare l’azienda in grave difficoltà finanziaria per stessa ammissione del presidente Franco Bernabè (“Non abbiamo neanche i 100 milioni per la caparra del gas”) e lo stallo creato in Consiglio di amministrazione e in assemblea su come (e quali cifre) intervenire. Il tutto mentre il governo è stato profondamente diviso sulla strada seguire. Poi lunedì 8 l’incontro a Palazzo Chigi con Aditya Mittal, il figlio del magnate Lakshmi, e la rottura definitiva. “Mandato a Invitalia a valutare con i legali ogni strada”, ha dettato il governo. Negli ultimi giorni si sono susseguite le riunioni per tentare un “divorzio consensuale” e il meno traumatico possibile per le casse pubbliche e i lavoratori, ma fonti vicine al dossier giudicano “inevitabile” ormai la strada del commissario. Da parte sua ArcelorMittal, attraverso fonti, ha fatto sapere che Invitalia gli chiede, una volta salita in maggioranza, di “continuare a finanziare Acciaierie d’Italia in futuro” ma “senza alcuna partecipazione alla gestione”.
Le proposte di Mittal – Una richiesta giudicata “non accettabile”, tranne che “per la partecipazione alle risorse finanziarie per l’acquisto degli impianti”, per la quale ha “offerto un contributo di 200 milioni di euro”. Inoltre, accusa ancora, “dal momento che il governo ha espresso la volontà che ArcelorMittal esca” dalla società, il colosso “ha anche avanzato la proposta di cedere le proprie azioni rimanenti direttamente a Invitalia o a un altro investitore gradito” all’esecutivo. Ma, sostiene, “Invitalia non è disposta ad acquisire” le quote di ArcelorMittal. Accuse alle quali fonti vicine a Invitalia hanno replicato seccamente ricordando che di aver “sempre dato disponibilità a sostenere la società e a esplorare e percorrere ogni soluzione compatibile con la normativa vigente, sia nazionale che comunitaria” ma ArcelorMittal “si è sempre rifiutata di partecipare al sostegno del piano industriale approvato in assemblea anche con il proprio voto favorevole”. Insomma, al lumicino le chance di una “soluzione negoziata”, giudicata “dannosa” dai franco-indiani. E infatti il governo spiana la strada ai commissari. L’eterno gioco dell’oca attorno all’Ilva è a un passo dal tornare alla casella di partenza.