Le storie più grandi finiscono sempre con le parole più misere. Una legge ferrea che nel corso dei secoli non ha risparmiato neanche papi e imperatori e che ora, improvvisamente, sembra aver colpito anche l’uomo che diceva di venire subito dopo Dio. José Mourinho da Setubal era arrivato due anni e mezzo fa per risolvere i problemi della Roma e se n’è andato oggi dopo essere stato additato dalla dirigenza come il principale problema della Roma. Almeno implicitamente. Un finale molto poco lieto che ha lasciato tutti sgomenti. Soprattutto per l’incoerenza fra la conclusione della storia e il suo incipit. L’annuncio di Mourinho il 4 maggio del 2021 era stato un colpo a effetto da parte dei Friedkin, un regalo ottriato che doveva proclamare urbi et orbi le rinnovate ambizioni di una squadra smontata pezzo dopo pezzo dalla gestione Monchi. A José si chiedeva di essere qualcosa in più del marziano a Roma di Flaiano.
Doveva comprendere le bizzarrie di un club che aveva speso tantissimo sul mercato ma che non aveva vinto niente, doveva capire la specificità di una tifoseria capace di circondare la squadra di un amore immenso ma che di tanto in tanto diventa soffocante. Ma soprattutto doveva togliere gli alibi a qualche giocatore ancora in cerca di autore. In poche parole lo Special One doveva allenare tutte le parti un causa: dirigenza, squadra, tifoseria. Il bivio era chiaro. O si vinceva con Mourinho in panchina oppure tanto valeva perdere qualsiasi speranza di successo. Una volta per tutte. Lo Special One ha interpretato il suo ruolo stando sempre bene attento a non tradire se stesso e il suo passato. Fino a diventare santone per i suoi giocatori e santino per i tifosi. Tutto nella consapevolezza che dopo i successi e le cadute alla guida di un Real Madrid mai così brutto, sporto e cattivo, del Chelsea, del Manchester United e del Tottenham, la sfida che gli si apriva davanti era una sola: dimostrare di non aver perso il tocco, di possedere ancora la bacchetta magica, di riuscire lì dove i suoi colleghi avevano fallito.
Per questo i capitolini erano una meta perfetta. Perché il nome di José Mourinho era molto più grande rispetto a quello della Roma. E un eventuale successo avrebbe ravvivato quell’aurea che stava impallidendo. La sua identificazione con chi sedeva sugli spalti è stata pressoché totale. Fin da subito, quasi aprioristicamente. Un rapporto simbiotico che è stato immortalato in un murales a Testaccio. Lo ritraeva in sella a una Vespa bianca (che da Special è diventata Speciale) con la sciarpa giallorossa al collo e con lo sguardo a scrutare l’orizzonte. Il simbolo di Vacanze romane era tornato per predire l’inizio di una nuova Dolce Vita. Almeno per quanto riguardava il pallone. Nella capitale José è stato molte cose e tutte insieme: Lìder Maximo di una squadra che ha regalato gioie enormi e architetto di un collettivo che ha instillato dolori strazianti. Tutto sempre senza mezze misure. O con lui o contro di lui. È un concetto che Mourinho ha ripetuto spesso durante questi due anni e mezzo.
La prima volta è stata il 21 ottobre 2021, nel gelo della Norvegia. La Roma, che nel corso della sua storia aveva incassato una sfilza di 7-1 con con sbarazzina frequenza (contro il Manchester United, contro il Bayern Monaco e addirittura contro la Fiorentina), aveva perso 6-1 in casa del Bodø/Glimt, un club che aveva ridisegnato il concetto di periferia calcistica d’Europa. E nella notte più tetra del club, era arrivata l’epurazione. Molti dei giocatori che si erano macchiati di quella sconfitta erano stati allontanati. E anche senza troppe carinerie. In quell’umiliazione pubblica, in quella sconfitta da barzelletta, era nata una nuova Roma. Una squadra quasi mai piacevole da guardare ma incredibilmente efficace. La vittoria della Conference League nella notte di Tirana era stata un capolavoro per un popolo che prima di allora aveva trovato il suo collante nella Sconfitta (rigorosamente con la maiuscola) contro il Liverpool nella finale di Coppa dei Campioni. Per giunta in casa. Quel successo era diventato il simbolo di una reciproca appartenenza.
La Roma aveva scelto Mourinho e Mourinho aveva scelto la Roma. E nessun matrimonio poteva essere più azzeccato. E poco importava del sesto posto finale. L’identificazione fra la città e il suo allenatore era diventata totale. La gratitudine reciproca sconfinata. Tanto che José si era tatuato su un braccio (anche) quella coppa che aveva regalato alla Roma. Mourinho era il condottiero in grado di guidare una città fino a sbaragliare i suoi nemici. Veri o immaginari che fossero. A Testaccio era comparso un altro striscione. Sopra c’era scritto: “Con Mourinho fino all’inferno”. E alla fine hanno assunto un significato sinistramente profetico. Quella passata doveva essere la stagione del salto di qualità. Era arrivato Dybala. Era arrivato Belotti. Era arrivato Matic. Era arrivato Wijnaldum. Quella che prima era una banda sembrava una falange oplitica. Solo che le cose hanno iniziato a girare al contrario. La Roma annaspava in campionato e volava in Europa League a colpi di sold out. Fino a raggiungere la finale. Fino a giocarsi tutto contro il Siviglia. La squadra dell’ex Monchi. La squadra dell’ex Lamela. Sembrava un sortilegio che solo lo Special One sembrava poter spezzare.
Poi era arrivato l’arbitro Taylor e, soprattutto i calci di rigore. La Coppa era tornata in Andalusia, lasciando la Roma di nuovo sola con i suoi fantasmi. In quella sera José si era fermato in mezzo al campo. Mentre gli avversari alzavano al cielo il trofeo ha parlato ai suoi giocatori. “Resto qui, per voi” ha detto a voce alta. Un gesto che forse non avrebbe fatto in caso di vittoria ma che ha raccontato alla perfezione quanto Mourinho e la città erano riusciti a compenetrarsi, a diventare una cosa sola. In estate l’arrivo di Lukaku sull’aereo dei Friedkin era stata un’illusione. La Roma poteva sedersi di nuovo al tavolo dei grandi. Poteva dire la sua per la corsa al quarto posto. La speranza era durata appena tre partite. Pareggio contro la Salernitana. Sconfitta contro il Verona. Debacle contro un Milan che in undici contro undici aveva dato prova di una forza soverchiante. Tanto che sembrava che qualcuno si fosse divertito a succhiare via il talento da parte dal corpo dei giallorossi. Erano passate solo tre partite, ma la stagione era già compromessa. La Roma non si è più ripresa.
Ha continuato a (non) giocare in maniera straziante, a trascinarsi per il campo, né completamente viva né completamente morta, come in un libro di Volodine. Ogni nuova partita assomigliava a una vecchia partita, qualcosa di già visto. Molti, lenti, lunghi, slegati, perforabili, spesso spaesati, i giallorossi sembravano esattamente il contrario di una squadra di Mourinho. Il bus parcheggiato davanti alla porta si era rimpicciolito fino a diventare un’apecar. Fino a regalare gioia a qualsiasi avversario. La sconfitta nel derby della scorsa settimana, con il primo tiro in porta giallorosso arrivato nel finale, era il manifesto di un disastro a cui neanche lo Special One riusciva più a mettere fine. Poi la partita contro il Milan ha assunto i contorni del colpo di grazia. Meglio separarsi, hanno pensato i Friedkin, meglio finirla qui prima lo spettacolo orroroso del presente possa sovrascrivere i momenti abbacinanti di Tirana. Il problema è che non c’è niente di più difficile di una separazione. Anche quando le cose vanno male. Anche quando è chiaro che sarà difficile trovare un altro Special One. Il fin troppo freddo comunicato di stamattina ha preso in contropiede solo gli ottimisti. Poi è arrivato il momento delle lacrime. Quelle dei tifosi, che hanno perso il loro rappresentante in campo. Quelle di Mourinho, che ha perso una città che aveva conquistato semplicemente con il suo modo di essere, di dare tutto. E forse è per questo che il nono posto della Roma appare un dettaglio trascurabile in questa faccenda.