“Ho visto Arnaldo La Barbera dentro vicolo Pipitone con i miei occhi, due volte, la prima quando mio zio Giuseppe Galatolo era ai domiciliari, a giugno 1990, e poi a metà del 1991. Mio zio scendeva, perché non lo faceva salire a casa, e si mettevano a parlare nello scantinato, una mezzoretta”. A raccontarlo è il collaboratore di giustizia Vito Galatolo, appartenente alla famiglia mafiosa dell’Acquasanta di Palermo, durante il processo di appello sul depistaggio della strage di via d’Amelio, che si celebra a Caltanissetta. Imputati sono i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Gli ex componenti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino, all’epoca guidati da Arnaldo La Barbera, sono accusati di calunnia aggravata per aver favorito Cosa nostra, perché avrebbero istruito Vincenzo Scarantino a rendere dichiarazioni che sarebbero servite a sviare le indagini sulla strage di via d’Amelio. In primo grado, caduta l’aggravante mafiosa, Bo e Mattei sono stati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”.
“Figure istituzionali nel vicolo Pipitone”- Durante le oltre tre ore di udienza, il collaboratore ha risposto alle domande formulate dal sostituto procuratore Maurizio Bonaccorso, applicato al processo insieme ai sostituti procuratori generali Antonino Patti e Gaetano Bono, spiegando il suo ruolo all’interno della famiglia mafiosa e quali figure istituzionali avevano rapporti con la mafia. “Quando facevo la sentinella a vicolo Pipitone, nel nostro covo, ricordo che venivano appartenenti delle istituzioni. Il maresciallo Sarzana era a libro paga della famiglia dell’Acquasanta, ci avvisava delle operazioni e di quello che succedeva, da noi veniva anche Aiello, ‘Faccia da mostro’, lo chiamavo così perché da bambini ci faceva paura quando lo vedevamo. Me lo disse mio zio Giuseppe Galatolo che lavorava per lo Stato. Poi veniva Bruno Contrada, e qualche volta anche La Barbera, nei primi anni ’90. La Barbera l’ho poi visto spesso nella nostra borgata e in via d’Amelio. Veniva anche due poliziotti, Piazza e Agostino, a cercare latitanti, e il nostro lavoro era quello di far scappare i latitanti nei cunicoli”, racconta Galatolo.
Gli incontri con La Barbera – Il magistrato Bonaccorso chiede al collaboratore di spiegare quando vide La Barbera recarsi nel vicolo, considerato luogo operativo della famiglia. “A giugno 1990, e poi a metà del 1991, mio zio Giuseppe ci chiamava, dandoci disposizione su dove metterci, io conoscevo di vista La Barbera, e mio zio mi disse che era uno della squadra mobile-polizia, e noi ci mettevamo a blindare tutto il vicolo, per controllare che non passasse nessuno”, dice Galatolo. Il magistrato chiede di spiegare minuziosamente gli eventi. “Le posso dire che è venuto di sera e non di giorno, in entrambe le occasioni – precisa Galatolo -. Ha posteggiato fuori dal vicolo, a piedi è entrato e uno dei miei cugini gli faceva cenno di andare avanti, ma lui rispondeva che sapeva dove andare. Quindi mio zio scendeva, lo seguiva nello scantinato. L’ho visto da solo, non con altre persone. Non posso escludere che arrivava da solo in auto o con qualcuno”. Poi, incalzato, il collaboratore aggiunge: “Non so di cosa parlassero con mio zio”.
“Volevamo spaccare le corna La Barbera” – In seguito, le domande vengono spostate sull’omicidio di Mimmo Fasone, avvenuto il 4 gennaio 1992 in un centro estetico di Palermo ad opera di La Barbera. “Fasone era un ragazzo di borgata, era rapinatore, bravo ragazzo per noi, in base alla mentalità criminali, non parlava e si faceva i fatti suoi, quando abbiamo saputo che lo avevano ucciso, parlando con i miei cugini, ci è scappato dalla bocca di spaccare le corna a La Barbera”, dice Galatolo. Perché però non lo fanno, domanda il pm Bonaccorso. “Tramite Angelo Galatolo, figlio di mio zio Giuseppe, parlavamo di fare un’azione criminale, un attentato, ma dopo una ventina di giorni durante il primo colloquio con il figlio, non ricordo se Angelo o Stefano, mio zio Giuseppe ci ha mandato a dire di non permetterci minimamente a pensarlo”, risponde Galatolo. Perché? “Ho saputo in famiglia che La Barbera era a disposizione della famiglia Madonia e dell’Acquasanta, mio zio Giuseppe mi disse che La Barbera ‘mancia mancia peggiu ri lautri’ (mangia peggio degli altri ndr), ma Nino Madonia ci teneva tantissimo a questo signore, e che era nel loro libro paga”.
Botta e risposta coi legali – L’avvocato Giuseppe Seminara, difensore di Mattei e Ribaudo, ha sottoposto il collaboratore diverse contestazioni, facendo emergere delle discrepanze tra le versioni raccontate sulla gestione della cassa della famiglia. “Gestivo i soldi di mio padre e dei miei zii insieme a mio cugino, nel 2000 gestivo tutto io perché ero rappresentante”, dice Galatolo. Il legale lo ha incalzato, e il collaboratore ha perso le staffe: “Ho risposto avvocato! L’avvocato mi fa delle domande ma non mi fa rispondere”. A quel punto il presidente Giovanbattista Tona è intervenuto: “Ha risposto avvocato Seminare”. Poi ha bacchettato il collaboratore: “Galatolo deve attendere che gli altri finiscono di parlare, lei cerchi di stare tranquillo e non mettersi a tu per tu con l’avvocato. Non si deve lamentare dell’avvocato, che sta svolgendo il suo lavoro, è compito del giudice gestire le contestazioni”. “Posso ripetere la domanda”, ha chiesto l’avvocato. “No, la corte capisce molte più cose, non si preoccupi – ha replicato il presidente Tona -, la invito nel controesame solo a fare le domande e non le sue personali considerazioni”. La prossima udienza sarà martedì 30 gennaio, e in aula comparirà l’avvocato Gioacchino Genchi, già poliziotto della questura di Palermo durante gli anni delle stragi.