La storia è appena iniziata eppure tutti già si domandano come andrà a finire. Perché il ritorno di Daniele De Rossi alla Roma è un avvenimento enorme ed enormemente rischioso. Per i tifosi, per la società, per il nuovo allenatore. Negli ultimi quattro decenni nessun altro club è stato altrettanto attento a fagocitare ogni sua leggenda. È successo con Falcao. È successo con Giannini. È successo con Völler. È successo con Bruno Conti. È successo con Francesco Totti. E ora che gli spettri del ridimensionamento hanno iniziato a danzare fra i corridoi di Trigoria, la Roma ha deciso di ripartire da uno dei suoi figli prediletti. In un momento dove era richiesta la massima razionalità, dove l’abbattimento di un totem chiamato Mourinho avrebbe impiombato qualsiasi sostituto, la società ha scelto di puntare sul cuore, di giocarsi la carta del richiamo emozionale. Una mossa che sa di profanazione.
Perché significa riportare indietro una leggenda sul piano degli uomini. E giudicarla in base ai risultati ottenuti. Niente di più crudele per uno che in carriera è stato un centrocampista capace di farsi sentimento, di creare un’immedesimazione pressoché totale fra chi vestiva la maglia giallorossa e chi soffriva sugli spalti. Tanto che il numero 16 (scelto in onore a sua maestà Roy Keane) sembrava quasi essere legato ai suoi tifosi da un mandato imperativo. Era il loro rappresentante in campo, la garanzia di un impegno totale che andava oltre la contingenza del risultato. Ed è proprio su questo che hanno puntato i Friedkin. Non sul suo curriculum (peraltro piuttosto scarno: 3 vittorie, 6 pareggi e 7 sconfitte in 16 partite con la Spal), non sulla sua idea di calcio. In questo Daniele De Rossi assomiglia a un governo di unità nazionale, un’entità a cui aggrapparsi disperatamente per evitare una catastrofe dolorosa e orrenda. Ora che Mourinho è uscito in lacrime da Trigoria, per l’ex centrocampista ha inizio una sfida dolce e velenosa al tempo stesso. I nodi che dovrà sciogliere sono tanti. E tutti complicati.
Il primo riguarda il gioco che vorrà dare alla squadra, qualunque cosa voglia dire. In pratica De Rossi dovrà togliere alibi ai suoi calciatori, dovrà evidenziare i loro pregi (che al momento appaiono sbiaditi) e i loro limiti (che sembrano fin troppo marcati), in modo da mostrare le prospettive future per quello che sono realmente. In pratica dovrà chiarire se la Roma di Mourinho giocava un calcio straziante perché i suoi calciatori erano scarsi o se i suoi calciatori sembravano scarsi perché la Roma di Mourinho giocava un calcio straziante. Per riuscirci, ma soprattutto per puntare al quarto posto, De Rossi non potrà contare su un capitale umano di primo livello. Perché la rosa romanista è piena di spine. L’ultimo atto di Mourinho è stato aprire il ballottaggio fra Rui Patricio (36 anni a febbraio e un contratto in scadenza a fine stagione) e Svilar. Ma si tratta solo della punta di un iceberg difficile da aggirare. Rispetto allo scorso anno la difesa è meno solida in copertura (ha subito sei gol in più) ma anche meno capace di sfruttare la palle inattive (vero fattore della passata stagione) per aggiungere quei gol al bottino striminzito messo a referto dall’attacco. Smalling non è ancora abile e arruolabile, Ndicka (che però mostra ancora qualche incertezza) è in Coppa d’Africa, Mancini convive con la pubalgia (ma perderà comunque la sfida d’esordio del nuovo allenatore per squalifica), Kumbulla non ha ancora giocato neanche un minuto. Restano Llorente (che ha dimostrato di soffrire gli avversari più fisici) e Hujisen (18 anni, in prestito dalla Juventus).
Sulle fasce non va poi meglio. Karsdorp non era esattamente il prototipo di giocatore che piaceva a Mourinho. Così la Roma ha acquistato prima Celik e poi Kristensen salvo poi accorgersi che forse era più affidabile Karsdorp e poi che probabilmente Kristensen offriva qualche soluzione in più in avanti. La tecnica non sarà raffinata, ma almeno il terzino di proprietà del Leeds riesce ad alzarsi sulla linea degli attaccanti nella speranza di creare qualcosa. A sinistra Zalewski è involuto e rischia di ripercorrere la parabola di Florenzi, Spinazzola non riesce a essere incisivo e a mettere in mezzo palloni in grado di far prendere uno spavento ai difensori avversari. A centrocampo Aouar e Renato Sanchez sono figure ectoplasmatiche, rebus in cerca di soluzione, mentre 20 giornate di campionato non sono bastate per dissipare tutti i dubbi sulla coppia formata da Paredes e Cristante. E se Pellegrini continua a cercare disperatamente se stesso, l’unico giocatore che sembra essere migliorato rispetto allo scorso anno è Bove. Troppo poco, finora, per provare a puntare a un posto fra le prime della classe.
In avanti, infine, il Gallo Belotti (l’unico ad averci messo la faccia nel disastro di San Siro contro il Milan) ha bisogno di mettere nelle gambe minuti per ritrovare quella condizione mostrata prima dell’arrivo di Lukaku, mentre Azmoun (fuori per la Coppa d’Asia) deve trovare una concretezza mostrata solo a sprazzi. L’elenco delle criticità è sterminato. Per sistemarle tutte ci vorrebbe una bacchetta magica, ma è grottesco pensare che si tratti del frutto di un incantesimo al contrario lanciato da Mourinho. Con l’addio del portoghese difficilmente i singoli cresceranno all’improvviso in qualità. Serve un’idea, un’identità, un entusiasmo tutto nuovo che eviti alla squadra di essere annichilita dagli avversari come successo nelle partite contro il Milan e nella sfida contro l’Inter. C’è bisogno di una consapevolezza nuova, una ciambella di salvataggio a cui aggrapparsi quando le cose non vanno bene per non ripetere gli errori visti nei derby e per centrare vittorie convincenti, non frutto di rimonte disperate con tutte le punte in campo contemporaneamente.
Forse De Rossi non sarà il miglior tecnico per il momento che sta vivendo la Roma, ma sicuramente è l’unico che può catalizzare il consenso della piazza e risparmiare critiche aspre alla squadra. Per questo la scelta di De Rossi appare oggi addirittura più paracula di quella che portò Mourinho nella Capitale due anni e mezzo fa. Il nuovo tecnico ha poco meno di un girone e un playoff di Europa League per dimostrare agli scettici che non è così. Ma il rischio di bruciarsi in una situazione estremamente ingarbugliata resta comunque altissimo. “Ho solo un unico rimpianto, quello di poter donare alla Roma una sola carriera” aveva detto il centrocampista quando vestiva ancora la maglia giallorossa. Una frase che è diventata aforisma ma si è rivelata infondata. Perché ieri mattina Daniele De Rossi ha donato la sua seconda carriera alla sua Roma. E nella capitale tutti sperano che sia brillante tanto quanto la prima. Perché stavolta i giallorossi non possono permettersi di ammainare un’altra bandiera.