Una campagna di comunicazione molto fortunata di una piccola ma agguerrita agenzia torinese di qualche anno fa recitava: un pompelmo è un limone a cui è stata data un’opportunità!
Vale anche per le mafie. I mafiosi non sono esseri umani “antropologicamente modificati” (come quel grande statista milanese, consegnato agli onori del Famedio, sosteneva pubblicamente dei magistrati che si ostinavano ad indagare, insinuando che fossero tutti e soltanto dei degenerati): i mafiosi sono criminali organizzati, con una spiccata vocazione politica, che diventano una minaccia eversiva per la democrazia quando colgono opportunità che non andrebbero offerte. Così come non andrebbero offerti “segnali” di disarmo unilaterale da parte dello Stato sugli abusi del potere: cos’altro è l’abolizione dell’abuso di ufficio?
Nemmeno la tracotanza violenta dei narcos centro e sud americani, che ha dato una nuova e impressionante prova di sé in Ecuador qualche giorno fa, deve far pensare che “quei” mafiosi siano antropologicamente diversi dai “nostri”. Non sono diversi, sono soltanto diventati “pompelmi” grazie ad una serie di opportunità offerte dal contesto istituzionale ed economico, opportunità che sono state spietatamente colte. La ferocia eversiva di quei cartelli infatti non è diversa da quella espressa negli anni ’80 e ‘90 dalla Cosa Nostra siciliana, capace di decapitare letteralmente ogni vertice politico e istituzionale che rappresentasse un ostacolo oppure un tradimento. La violenza brutale con la quale quei cartelli mantengono la propria supremazia nel costante conflitto con altri cartelli concorrenti non ha nulla di diverso da quella adoperata all’interno della ‘ndrangheta calabrese o delle camorre in Campania o della mafia garganica. Tra i tanti film dell’orrore che si possono facilmente ripercorrere per averne un assaggio, ci sono le deposizioni del collaboratore Andrea Mantella, killer di ‘ndrangheta, testimone per l’accusa nel processo Rinascita Scott: un orrore che dalle Serre del vibonese arriva fino alle porte di Torino.
Poche cose al mondo sono più difficili che convincere un “pompelmo” a tornare “limone”: l’Italia c’è riuscita, a carissimo prezzo. Per questo da anni strumenti e strategie inventati e applicati nel nostro Paese sono studiati nella Ue e in tutto il mondo. Tra le mosse decisive per produrre questa storica “riduzione”, prodromica alla definitiva eliminazione per spremitura, c’è stata l’introduzione delle misure di prevenzione patrimoniali, che danno il potere allo Stato di individuare e neutralizzare (attraverso sequestro e confisca) patrimoni di provenienza illecita, a prescindere da una condanna penale.
Oggi, come è noto, l’intero sistema delle misure di prevenzione patrimoniali è sul banco degli imputati nientemeno che a Strasburgo: la Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu) ha chiesto al governo italiano di spiegare come queste pratiche siano compatibili con i diritti umani fondamentali fissati dalla Convenzione europea. Questa vicenda si sta consumando in un silenzio assordante, mentre andrebbe accompagnata da una adeguata discussione pubblica.
Mi risulta che finalmente la Commissione parlamentare antimafia abbia acquisito la memoria che il governo italiano a fine novembre aveva inviato alla Cedu per rispondere alle contestazioni. Perché non adoperarla come punto di partenza per un confronto pubblico? Giusto per mettere le carte in tavola. Magari cominciando a rispondere ad una questione fondamentale: lo Stato ha o non ha un preciso dovere di agire in prevenzione della commissione di reati? Consideriamo la violenza sulle donne. C’è qualcuno che pensa che lo Stato debba limitarsi ad assicurare alla giustizia gli autori di femminicidio, senza fare di tutto perché al potenziale autore dell’orrendo crimine sia impedito in ogni modo di realizzare il proprio scopo?
La prevenzione si traduce nel potere dello Stato di impedire al potenziale criminale di avvicinarsi alla vittima, di abitare in una certa città, di avere il porto d’armi eccetera. Tutti provvedimenti che impattano evidentemente sulla libertà personale del possibile autore del delitto. C’è qualcuno che a questo punto sarebbe pronto ad insorgere sostenendo che provvedimenti come questi, che impattano sulla libertà personale, essendo afflittivi, non possano che essere considerati delle pene e che per questo siano legittimi soltanto se applicati all’esito di un processo penale? Cosa ne direbbe Giulia Bongiorno, paladina del “Codice Rosso”?
Perché questo è il cuore del poco sofisticato attacco alle misure di prevenzione patrimoniali che si sta consumando in un silenzio assordante. A meno di convincersi che sia necessario agire in prevenzione nei confronti di un marito violento e non nei confronti delle organizzazioni mafiose, perché a differenza del primo queste non generano più alcun allarme sociale. Parafrasando l’indimenticato vaticinio di quel ministro berlusconiano: con un marito violento non si può convivere, con le mafie invece sì.