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Saltburn: l’infingardo, subdolo e ipocrita scalatore sociale Oliver Quick? Il personaggio più grossolano, fasullo, vacuo che Hollywood potesse inventare

Questa tortura sgangherata nella costruzione narrativa, inutilmente affilata nell’impianto drammaturgico, banalmente eseguita tra attori e regia tutto kubrickismo d’accatto (guardate come scavalca di campo), è uno di quei film di cui ricorderemo tra qualche anno a malapena i titoli di testa (altro piano sequenza che serve a mostrare solo il budget per le apparecchiature tecniche)

di Davide Turrini

Signora mia, sapesse che scandalo. Lecca la vasca. Penetra con il pene la terra dove è sepolto l’amato amico fraterno mimando un amplesso. L’infingardo, subdolo e ipocrita scalatore sociale Oliver Quick (ogni assonanza lasciatela dove la trovate) è il personaggio più grossolano, fasullo, vacuo che la Hollywood progressista da épater les bourgeois anno domini 2023 potesse inventare.

Ci hanno scritto tutti su Saltburn e da buoni ultimi arriviamo anche noi. E da buoni ultimi ce ne andiamo anche di corsa. Memorizzare l’anticinema della regista e sceneggiatrice inglese Emerald Fennell, tutto allusioni da cortile del college, tutto provocazioni psichedeliche da disco inferno, tutto guarda cosa ti mostro adesso anche se non c’entra una mazza col resto, è una di quelle fatiche erculee che non merita prezzo alcuno. Perché questa tortura sgangherata nella costruzione narrativa, inutilmente affilata nell’impianto drammaturgico, banalmente eseguita tra attori e regia tutto kubrickismo d’accatto (guardate come scavalca di campo), è uno di quei film di cui ricorderemo tra qualche anno a malapena i titoli di testa (altro piano sequenza che serve a mostrare solo il budget per le apparecchiature tecniche).

Nel 2006 ad Oxford arriva il provinciale e apparentemente sfigato Oliver (Barry Keogan), sessualmente fluido e fisicamente marmoreo come una statua dell’isola di Pasqua. Dapprima finisce tra gli autistici e schizoidi geni senza compagni con cui pranzare, poi diventa protégé del ricco aristocratico Felix Catton (Jacob Elordi) inseguito da tutte le ragazze ma sfuggente come un’anguilla sudaticcia. Oliver ne diventa talmente amico che Felix lo invita per l’estate nella sua splendida infinita tenuta di Saltburn. È lì che dopo qualche settimana di finto imbarazzo, Oliver attirerà eroticamente verso di sé ogni membro della famiglia Catton, farà allontanare altri individui parassiti che ronzano attorno alla tenuta, fino a vedere morire con un certo compiaciuto gusto tutti i componenti familiari uno ad uno come mosche. Citare Teorema di Pasolini è snob. Giusto. Per carità. Mettiamola così allora.

Saltburn è un thrillerino ripetutamente anticlassista senza avere alcuna base di materialismo dialettico. Tanto che nella loro esistenza chiaramente parassitaria, tutto noia in riva alla piscina e nudi tra le frasche, quei poveracci dei Catton (padre, madre, figlia ninfomane e figliolo belloccio) risultano comunque simpatiche vittime di un manipolatore amorale, sadico e porcello come Oliver che nemmeno i castigatori da incubo dell’Haneke di Funny Games. Saltburn procede per squilibrati sussulti, strambe risultanze estetiche (si chiudono le tende rosse e lo sfondo in casa Catton si fa rossastro – sic!), ma soprattutto rappattumando amene spigolature gotico pop per esaltare la bizzarria stilistica della regia (aiuto il 4:3 anche qui!) e la fotografia inutilmente roboante di Linus Sandgren. E se comporre apparentemente un bel quadro serve a fare una bella mostra d’arte ma non un bel film, diteci perché da un po’ di tempo a questa parte ad Hollywood i film non si sanno più scrivere. Nel buco nero ci cadono tutti, anche solo da metà script in avanti, da Chazelle a Lanthimos. Perché scenette scandalose a parte, in Saltburn sembra sempre di trovarsi di fronte alla dimostrazione dell’irrefrenabilità sterile di un talento visivo a scapito della naturale essenzialità di una qualunque storia.

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