Benjamin Netanyahu è solo con il suo governo. Perché l’alternativa all’isolamento sarebbe la morte politica. Il popolo israeliano era stato chiaro dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre: il premier dovrà dimettersi appena finisce la guerra a Gaza. E allora, adesso che il conto alla rovescia si avvicina allo zero, il conflitto deve continuare, in qualsiasi modo. Soprattutto se per mettervi fine il primo ministro deve tradire il punto centrale di 30 anni di politica: l’opposizione alla nascita di uno Stato palestinese.
Anche se le tensioni regionali l’hanno resa quasi un’utopia, le morti, le devastazioni e le sofferenze da entrambe le parti della cortina che separa Israele dalla Striscia di Gaza hanno riportato la soluzione dei ‘due popoli e due Stati‘ al centro dei piani della comunità internazionale. Non è una soluzione facile da perseguire, ma è l’unica che la politica mondiale riesce a ipotizzare. Così, su quella posizione si sono schierati la maggior parte dei Paesi arabi, i governi europei e anche il grande alleato americano. Tutti a chiedere la fine di Hamas e, dall’altra parte, delle colonie illegali in nome di una normalizzazione che porti alla creazione di uno Stato di Palestina riconosciuto.
Tutti lo chiedono, tranne Netanyahu. Non solo perché lo stop alla guerra metterebbe fine alla sua comunque ampia parabola politica, lasciandolo solo con i suoi guai giudiziari. Ma anche perché sarebbe una fine ingloriosa, l’estremo tradimento della sua idea di Stato ebraico, Benjamin che uccide politicamente Bibi. Un cortocircuito chiaro a chi conosce la storia politica del più longevo premier nella storia di Israele.
È il 1993, a 44 anni Netanyahu diventa il leader del Likud. Reduce di guerra ed ex membro delle forze speciali israeliane, impronta la sua carriera politica sul conservatorismo di destra in anni in cui il Paese vive una spaccatura tra chi respinge ogni tipo di dialogo sulla nascita di uno Stato palestinese e chi, invece, ritiene che non ci sia altra via che il confronto con la controparte. La pensa così l’allora primo ministro, Yitzhak Rabin, tanto da arrivare alla famosa stretta di mano col leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, Yasser Arafat, immagine simbolo degli Accordi di Oslo che vennero siglati proprio nell’agosto del 1993.
A quegli accordi e all’idea che si dovesse procedere verso la soluzione dei due Stati si è sempre opposto proprio Netanyahu. Già al tempo ne fece il fulcro della sua politica, alternativa a quella delle formazioni più moderate. Passano appena due anni e il sogno di Oslo muore insieme a colui che in Israele ne era il principale volto: nel novembre 1995, al termine di un evento denominato “sì alla pace, no alla violenza”, uno studente di estrema destra e fanatico religioso spara e uccide il premier Rabin.
Il funerale del primo ministro è anche quello del dialogo con Ramallah. Tanto che alle elezioni successive salirà al potere proprio Netanyahu mettendo subito in chiaro le cose: no alla nascita di uno Stato palestinese. Con i colloqui che piano piano si arenarono e le tensioni che crebbero sempre di più, si arrivò presto allo scontro tra i suoi governi e la controparte palestinese che hanno portato, tra Intifada, attentati, sviluppo delle colonie illegali e sanguinose operazioni su Gaza, alla situazione odierna.
Chi, tra Biden, i governi europei o quelli arabi, oggi chiede a Netanyahu di terminare le operazioni a Gaza e favorire un dialogo che porti proprio alla nascita di uno Stato palestinese sa che gli sta chiedendo la concessione più dolorosa. Concessione che Netanyahu non ha intenzione di fare. Non a caso, la telefonata di fine anno con Joe Biden si è conclusa con un presidente Usa stizzito per la mancata collaborazione: “Questa telefonata finisce qui”. Lo ha ripetuto nelle sue dichiarazioni di giovedì sera, quando ha precisato che fino a quando sarà lui alla guida del governo non ci sarà nessuno Stato di Palestina. “L’ho detto anche agli Stati Uniti“, ha precisato quasi sfidando Washington e premettendo che “la guerra richiederà ancora molti mesi“.
È proprio il tempo ciò su cui gioca Netanyahu, con le elezioni americane che rappresentano la sua unica speranza di sopravvivenza politica: in caso di vittoria di Donald Trump, tornerebbe forte il legame tra Usa e Israele, un legame incondizionatamente sbilanciato sulle posizioni di Tel Aviv anche a rischio di crescenti tensioni regionali. Non è un caso quindi che Netanyahu abbia di nuovo sottolineato le sue condizioni per la fine delle operazioni militari: lo “sradicamento totale di Hamas” e la “liberazione di tutti gli ostaggi“. Liberazione che nelle scorse settimane lui stesso si è rifiutato di discutere perché, come ha spiegato giovedì, “fermare la guerra senza aver raggiunto i nostri obiettivi danneggerà la sicurezza di Israele per generazioni, creerebbe un messaggio di debolezza e il prossimo massacro sarà solo questione di tempo”.
Tempi lunghi, quindi, per i quali Netanyahu ha preparato la sua fortezza, assediato dai nemici e pressato dagli alleati. È questa la sua strategia, l’unica possibile se non vorrà essere ricordato come il più longevo premier israeliano che cadde tradendo se stesso.