Una guerra lunga, fino alla liberazione di tutti gli ostaggi e, soprattutto, dopo la quale non ci sarà la nascita di uno Stato palestinese. Nonostante l’accerchiamento e le pressioni che ormai arrivano anche dagli storici alleati europei e americani, Benjamin Netanyahu cerca di mostrarsi forte e fermo sulle sue storiche posizioni. E lo fa quasi sfidando Washington, dicendo di aver già recapitato il messaggio alla Casa Bianca: nessuna ingerenza, nessuna pressione per la soluzione dei due popoli e due Stati auspicata dalla maggior parte della comunità internazionale.

“In qualsiasi accordo futuro Israele deve controllare con sicurezza tutto il territorio a ovest del Giordano – ha detto il primo ministro – Questo si scontra con l’idea di sovranità. Cosa ci possiamo fare? Il primo ministro deve essere in grado di dire di ‘no’ ai nostri amici“. Una formula che ricalca, al contrario, quella usata dai movimenti di liberazione palestinese che invocano una Palestina “dal fiume al mare”. Netanyahu inverte la prospettiva e sostiene che su quel territorio, che ad oggi comprende anche i Territori Occupati palestinesi, Tel Aviv dovrà avere possibilità di controllo per garantire la propria sicurezza. Come se una diversa soluzione rappresentasse una minaccia esistenziale per lo Stato ebraico: “Il giorno del dopo Netanyahu” significa lo Stato palestinese, contro “la maggioranza dei cittadini di Israele. Per 30 anni sono stato coerente sostenendo una cosa semplice: il conflitto non riguarda la mancanza di uno Stato ma l’esistenza di uno Stato”. Parole che suonano come un avvertimento al segretario di Stato americano, Antony Blinken, che sta lavorando per una normalizzazione dei rapporti tra Israele e potenze regionali come l’Arabia Saudita in cambio di un “percorso” per la nascita di uno Stato palestinese. Secondo il premier, “da ogni territorio da cui ci ritireremo avremo terrore. È successo nel sud del Libano, a Gaza, Giudea e Samaria (Cisgiordania)”.

Se agli occhi dei Paesi arabi, dell’Europa e soprattutto degli Stati Uniti la soluzione da perseguire per arrivare a una pace a Gaza è quella dei due popoli e due Stati, fallita subito dopo gli Accordi di Oslo e l’uccisione del primo ministro Yitzhak Rabin per mano di un estremista sionista, ad oggi Benjamin Netanyahu rappresenta un ostacolo. Perché su questo punto non ha alcuna intenzione di cedere. Tanto che, dice lui stesso, il conflitto durerà ancora molto, fino a quando non si arriverà all’ormai nota “eradicazione di Hamas” auspicata dal suo esecutivo. “La vittoria richiederà ancora molti mesi, ma siamo determinati a raggiungerla” e “senza compromessi”, ha spiegato il premier aggiungendo che “la guerra continuerà su più fronti” e “fino a quando tutti gli obiettivi non verranno raggiunti”. Questo perché Israele punta “alla vittoria completa. Non solo per colpire Hamas, non solo per danneggiare Hamas, non per un altro round con Hamas, ma una vittoria totale su Hamas”.

La parola ‘fine’ sul conflitto verrà messa, aggiunge Netanyahu, solo quando i terroristi saranno stati annientati e tutti i 136 ostaggi ancora nelle loro mani verranno liberati: “La fine della guerra invierà un messaggio di debolezza e quindi il prossimo massacro sarà solo questione di tempo. Lo prometto, non finiremo la guerra prima del ritorno di tutti i nostri rapiti“. E questo, conclude, richiederà ancora “molti mesi”. Mesi che, è sottinteso, non possono che vederlo alla guida dell’esecutivo israeliano.

Twitter: @GianniRosini

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