di Roberto Iannuzzi*

Se c’è una cosa che i primi cento giorni del tragico conflitto di Gaza hanno dimostrato è che esso non rimane confinato a Gaza. Fin da subito, oltre che a sud Israele è stato impegnato in scontri di crescente violenza con Hezbollah sul fronte settentrionale. Tel Aviv ha anche ripetutamente bombardato obiettivi iraniani in Siria, oltre agli aeroporti di Damasco e Aleppo.

Le basi americane in Siria e Iraq sono state prese di mira dalle locali milizie filo-iraniane con razzi e droni. Gli Usa hanno risposto con rappresaglie aeree via via più aggressive, senza però riuscire a scoraggiare i propri avversari.

Più a sud, il movimento sciita yemenita di Ansar Allah (meglio noto come gli “Houthi”, dal nome del suo fondatore Hussein al-Houthi) ha letteralmente dichiarato guerra a Israele e, data la considerevole distanza che separa i due paesi, dopo alcuni lanci di missili e droni neutralizzati dalle difese israeliane, ha rivolto i propri attacchi contro il traffico navale legato a Israele nel Mar Rosso.

Per tutta risposta, dopo un ultimatum lanciato all’inizio di gennaio ma puntualmente ignorato, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno bombardato postazioni militari degli Houthi in territorio yemenita. Lungi dal dissuadere il movimento, queste azioni hanno suscitato ulteriori risposte armate di Ansar Allah contro obiettivi navali americani, rendendo ancor più insicuro il traffico commerciale nel Mar Rosso. Il carattere indiscriminato dell’operazione militare di Tel Aviv a Gaza ha spinto esperti e organizzazioni internazionali a lanciare l’allarme su un possibile tentativo israeliano di pulizia etnica, di rendere Gaza inabitabile – e addirittura uno stato come il Sudafrica a denunciare Israele, con il sostegno di numerosi paesi, alla Corte Internazionale di Giustizia con l’accusa di “genocidio”.

Il conflitto ha un impatto politico ed emotivo dirompente sulla regione, avendo allarmato paesi confinanti come Egitto e Giordania, suscitato la ferma condanna di potenze regionali come Turchia e Arabia Saudita, e prodotto la reazione militare già menzionata da parte dei membri del cosiddetto asse filo-iraniano nella regione. Sostenendo l’azione bellica israeliana con un costante flusso di armamenti, condividendo apertamente l’obiettivo di Tel Aviv di eliminare Hamas, e rifiutando la prospettiva di un cessate il fuoco, l’amministrazione Biden è vista in Medio Oriente come totalmente schierata con Israele.

Tuttavia, se la Casa Bianca ha sposato gli obiettivi militari di Israele a Gaza, non vi è accordo con il governo del premier israeliano Benjamin Netanyahu sugli scenari post conflitto. Ma, soprattutto, Washington non ha alcun interesse a un possibile allargamento delle ostilità al Libano, o addirittura all’Iran. A una simile prospettiva possono essere interessati alcuni esponenti politici in Israele (i quali segretamente sperano di trascinare gli Usa nel conflitto per regolare una volta per tutte i conti con i propri avversari regionali), o qualche lobby neocon o filo-israeliana a Washington, ma non l’establishment americano nel suo complesso.

Gli Stati Uniti avrebbero molto da perdere da una guerra regionale. Le loro basi in Siria, Iraq e nel Golfo, così come le loro navi e i loro altri interessi nella regione, sarebbero esposti al fuoco nemico, in un confronto potenzialmente incontrollabile. Gli Usa non sono usciti vittoriosi dall’Iraq, difficilmente emergerebbero vincitori da una pericolosissima guerra estesa al Medio Oriente.

In passato, quando serviva a Washington, i presidenti americani hanno sempre imposto il proprio volere all’alleato israeliano. Ci riuscì Reagan nel 1982 allorché obbligò il premier Menachem Begin a ordinare un cessate il fuoco a Beirut. Fece lo stesso George W. Bush nel 1991 quando trattenne 10 miliardi di dollari di aiuti per convincere il primo ministro Yitzhak Shamir a fermare la costruzione degli insediamenti in Cisgiordania.

Malgrado ciò, finora Biden si è rifiutato di esercitare pressioni reali su Tel Aviv per spingerla a ridurre l’intensità dei bombardamenti a Gaza, a consentire l’ingresso degli aiuti umanitari, ad accettare il (peraltro velleitario) piano americano sul futuro assetto della Striscia, o a non esacerbare la situazione sul confine libanese. Le azioni di “deterrenza” compiute da Washington nella regione per “contenere il conflitto” hanno dimostrato di non avere effetto. In occasione del breve cessate il fuoco di novembre per lo scambio di ostaggi a Gaza, invece, tacquero anche le armi di Hezbollah in Libano, delle milizie sciite in Siria e Iraq, e perfino le azioni degli Houthi nel Mar Rosso furono sporadiche.

In un libro intitolato I sonnambuli, il noto storico Christopher Clark spiegò brillantemente come le potenze europee alla vigilia della grande guerra scelsero l’opzione militare nella convinzione di poter circoscrivere il conflitto. Allo stesso modo, gli Stati Uniti stanno scivolando come sonnambuli verso una guerra su vasta scala illudendosi di poter contenere le fiamme dell’incendio di Gaza. Soltanto spingendo Israele verso un cessate il fuoco permanente, anche attraverso l’adozione di misure concrete come la sospensione dell’invio di armi americane, Biden avrà la certezza di scongiurare un conflitto regionale.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
Twitter: @riannuzziGPC
https://robertoiannuzzi.substack.com/

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