Victor Segalen attorno all’anno 1918 scrisse il poema Thibet, sua ultima opera, che lasciò incompiuta. È un inno al Tibet in cinquantotto lasse di versi quasi liberi, la cui scintilla è da rinvenire nella traduzione, approntata dall’amico Gustave-Charles Toussaint, del Padma bkai thang‑Yig, Detti e fatti di Padmasambhava, primo predicatore del buddhismo a nord dell’Himalaia. L’afflato è scioltissimo, oscillante tra la lode di una gloria imperitura e la constatazione di una morte incipiente del mondo tibetano. L’invasione britannica del 1903 aveva infatti innescato il disastro, poiché, da provincia remota dell’Impero di Mezzo, il Tibet divenne spazio conteso. Segalen ne testimonia con anticipata nostalgia e partecipe veggenza.

F.P.

***

V
Terra! Terra! Rialzamento del Continente più di sé
Re – coronantesi sul tuo potere.
Per esso i vassalli vanno e vengono, mutevole diadema,
Portando il prezzo dei loro saperi.
Quelli che si slanciano su piedi a zoccoli artigliati di demoni;
Le ragazze che incedono con balzo libero;
E quei lunghi serpenti delle tue acque, nati dai più puri getti dei tuoi monti:
Grandi fiumi cercanti l’equilibrio!
Per gole e balze saltando, rotolando, fluendo, sbavando,
Menano la loro corsa alla foce,
La vasca finale dissolta nel suo deludente ancheggiato:
Mare, idropica sbavatura!
Il mare senza monti, il mare senza fronte, il tino di noia grigio piombo
Che balla come orso nelle sue maree;
Prodigio! da te eccolo – rampicante ai tuoi piedi – issato,
Il mare peregrino al tuo appiombo!
E si curva, ed è in rotta nel suo servaggio efelide
Verso te, veemente nel solido!

XXI
Dov’è il suolo, dov’è il sito, dov’è il luogo, – il mezzo,
Dov’è il paese promesso all’uomo?
Il viaggiatore viaggia e va… Il veggente lo tiene sotto i suoi occhi
Dove è l’innominato che si denomina:
Nepemakö nel Poyoul e Padma Skod, Knas Padma Bskor
Dalle rudi sillabe aggregate!
Dica, dica, monaco errante, monaco furioso, – ancora:
Dov’è l’Asiatide emersa?
Ho troppe volte solcato, doppiato i contorni del mondo inondato
Dove cuore né uccello né passo non posa.
Dov’è il fondo? Dov’è il monte ammucchiato d’apoteosi,
Dove vive quest’amore inabbordato?
A quale accoglimento presentirlo, – a quale scoglio riconoscerlo?
Dove troneggia il dio sempre nascituro?
È in te stesso o più di te, Polo Tibet, Imperatore Uno!
Dove brucia l’Inferno promesso all’Essere?
Il luogo di gloria e di sapere, il luogo d’amare e di conoscere
– Dove giace il mio reame Terrestre?

LIV
Le cime cascano; la melma monta; un piatto universo si compie.
Disprezza – Tibet – la nostra bassezza.
La terra tutta si disamora; ogni teso desio s’ammollisce.
La stretta vale quale carezza?
Dov’è dunque l’alto e il puro quando il Sommo si sovrabbassa:
Quando Popolo si fa così mio «re».
La polpa sbava sulla pelle dell’antica Sfera maestra,
La Terra si rotola allo smarrimento.
Ché più non sono nei cieli sottomessi temibili dèi tenaci, –
Né fra noi tutti di quegli Eroi
Conducenti vita ardente in battaglia personale con grande audacia
Ma dei milioni di Numeri.
Che ne è in tutto ciò del Diverso, maestro d’ogni gioia al mondo,
Che fa l’Altro, così imperioso?
– Ultimo re non spossessato; ultimo monarca d’Altimondo,
Tibet, con questo poema d’elogio
T’ordino Principe dei Picchi. T’affranco da tutti i demi.
Ti faccio tuo proprio diadema.

LVI
Quando tutti i tuoi monaci saranno morti; quando il Diverso sarà frantumato,
Quando più niente sarà più sovrano;
E il ToBod già percorso; e Lhasa stessa trascorsa:
Poyoul accatastato al decametro,
– Se un uomo è là, un solo uomo per salirti e lodarti,
Malgrado la spaventevole atonia.
Fa’ allora, – o Tibet paziente, Tibet che subì le troppo multiple avanie
Che si sovvenga di questo canto,
Questo poema, da te solo e per te provocato nelle sue sequenze
Questo grido ritmato dalla tua potenza,
Con i suoi getti, le sue frenesie, – il suo ritmo balzo di scalatore…
E lui, riprendendo queste cadenze,
Che le mie sequenze servano a ritmare la sua marcia elastica,
[alle ragazze tibetane perdute…
Al suono dei distici
– Fa’ allora, in preghiera e grazie, da donatore immenso, – e dono e demone,
Che all’ultimo dei novenari,
Ai piedi della sequenza estrema, – qui in calce, – qui in angolo –
[della scultura dei tuoi monti,
Il mio nome, come un sigillo, si rigeneri.

* i componimenti sono tratti da Victor Segalen, Preghiera orientale, a mia cura, postfazione di Giorgio Agamben (Milano, Il Saggiatore, 2019).

***

Victor Segalen (Brest, 1878 – Huelgoat 1919) fu legato d’amicizia a Claudel e Debussy, e fece conoscenza con Saint-John Perse. Medico della Marina francese, viaggiò per il mondo, in Polinesia prima, riportandone i cimeli di Gauguin, poi in Cina a più riprese tra il 1909 e il 1918. Scrisse saggi sull’esotismo e sulla statuaria cinese, taccuini di viaggio, versi, poèmes en prose come Stèles e romanzi, tra cui l’iconico René Leys.

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