Non sono trascorse che cinque settimane dal giorno in cui Javier Gerardo Milei, netto vincitore delle ultime presidenziali argentine, ha messo piede nella Casa Rosada. E sebbene moltissima – anche troppa, come non pochi ritengono – sia la carne da lui già messa al fuoco, è ancora presto, anzi prestissimo, per esprimere giudizi di qualche sostanza sul suo operato e sulla pratica efficacia delle sue ricette – o meglio delle sue prediche economico-politico-filosofiche.
Milei fondamentalmente resta – e tale presumibilmente resterà ancora per qualche tempo o addirittura, chi può dirlo?, in saecula saeculorum – un indovinello dentro un enigma. Vale a dire: l’indovinello d’un molto pittoresco personaggio che – sospinto da una mistica interpretazione delle teorie neoliberali della scuola austriaca ed esaltato dalle sue turbolente esibizioni, motosega alla mano, nei più scollacciati talk-show televisivi – è infine assurto alla presidenza d’un paese devastato dall’ultima delle sue cicliche (croniche) crisi economiche.
E l’enigma – l’eterno, inestricabile enigma – d’un paese, l’Argentina, le cui vicende politiche ed economiche sono, per politologi, economisti e storici, quello che per i matematici fu (e tuttora è) l’irrisolta “Ipotesi di Riemann” (relativa alla distribuzione dei numeri primi, ma non è il caso di entrare qui in dettagli, specie per chi, come me, di matematica non capisce una mazza).
Un obiettivo, tuttavia, Javier Milei già l’ha raggiunto. E l’ha raggiunto indiscutibilmente su scala globale. Anzi: sulla più globale delle immaginabili scale globali. Ovvero: nel riconosciuto tempio del capitalismo globalista, in quel Foro Economico di Davos dove ogni anno, nel candido nitore delle Alpi svizzere, i potenti del mondo – capi di Stato e di governo, grandi imprenditori, illustri accademici e opinion maker d’ogni tipo – s’incontrano per discutere le economiche sorti del medesimo. Quale obiettivo ha ragiunto Milei? Quello di confermare con caricaturale precisione – e con tutto il peso della carica che da una quarantina di giorni ricopre – quella che da sempre è la più abusata, stereotipica (una caricatura, per l’appunto) immagine dell’argentino e dell’Argentina.
Quelli che, tra i lettori, abbiano qualche familiarità con la molto meneghina figura del “bauscia” non avranno difficoltà alcuna nell’afferrare il concetto. E tutti quelli che vantano una passabile conoscenza dell’America Latina già saranno più che a conoscenza d’un luogo comune che, in tutti i paesi che non siano quello con capitale Buenos Aires, è fonte d’una industriale quantità di reiteratissime ed amene freddure. Eccone alcune, tanto per chiarire. Sapete qual è il più lucroso degli affari? Comprare un argentino per quel che vale e rivenderlo per quel che lui crede di valere. Sapete qual è la più comune forma di suicidio tra gli argentini? S’arrampicano sul proprio ego e si buttano di sotto. E infine (questa l’ho sentita raccontare da “nientepopodimeno” che Gabriel García Marquez): sapete qual è la più correttamente scientifica definizione di ego? È l’argentino che ciascuno di noi si porta dentro…
Ebbene sì. La modestia non è mai stata – sempre, ovviamente, restando nel campo degli stereotipi – tra le più apprezzate virtù degli argentini. E a questo tenace pregiudizio – ingiusto come tutti i pregiudizi – Milei ha dato, mercoledì scorso, una poderosa, eclatante spinta di fronte alla più cosmopolita e qualificata delle possibili platee internazionali. Il tutto grazie a un discorso (qui il video e il testo completo) sicuramente destinato a restare – anche se non per le ragioni che Milei aveva presumibilmente auspicato – nella storia del Forum Economico. E anche, purtroppo, in quella dell’Argentina (capitolo dedicato a “los papelones”, le brutte figure).
Non ha, come si dice, menato il can per l’aia il presidente argentino. E al dunque – un sacro dunque – è venuto fin dalle primissime parole, in tutto degne, per la loro profetica forza, del biblico “Figlio dell’Uomo” (il “Bar Enash” del Libro di Daniele 7:13, o lo stesso Gesù Cristo in Matteo 9:6) disceso in Terra – pentitevi prima che sia troppo tardi!! – per annunciare la prossima Apocalisse e l’avvento del Regno dei Cieli. “Oggi sono venuto qui – ha esordito Milei con ieratici accenti – per dirvi che l’Occidente è in pericolo. Ed è in pericolo perché quanti dovrebbero difenderne i valori sono stati cooptati da una visione del mondo che, inesorabilmente, conduce al socialismo e, conseguentemente, alla povertà…”. Questa visione del mondo – ha quindi proseguito – si chiama “collettivismo”. E per illustrarne la demoniaca natura – nonché per indicare al popolo di Davos la via della salvezza – Milei è tornato a raccontare, come già aveva fatto innumerevoli volte in vari talk show e in centinaia di comizi, la storia – o meglio la molto ridicola leggenda – d’una Argentina che seguendo la via maestra del libertarismo fu “la prima potenza del mondo” e il “faro dell’Occidente”. Fino a cento anni fa, quando, ascoltata la voce del demonio e mangiata la mela del collettivismo, ha condannato se stessa alla “decadenza”.
Non sono mancati, ascoltate le parole del presidente, gli uomini di poca fede pronti a scandalizzarsi per il fatto che – in un vero e proprio copia e incolla – il neopresidente abbia senza alcuno sforzo d’approfondimento usato, per rivolgersi ai capi di Stato, ai supermanager e ai cervelloni economici riuniti a Davos, le stesse parole e gli stessi concetti spesi, agitando la motosega, in talk show e in lezioni impartite a platee pressoché ignare di cose economiche (quasi l’80 per cento del discorso di Davos appare infatti tratto, pari pari, da un suo intervento ad una conferenza tenutasi a San Nicolás nel 2018 per studenti del TED, Technology, Entertainment & Design). Ma la cosa ha in realtà una più che logica spiegazione. Per il “Figlio dell’Uomo” Javier Milei, quelle elaborate da Mises, Hayek, Friedman o altri classici della scuola austriaca non sono teorie economiche. Sono testi sacri. E testi sacri sono anche i concetti che, su questa base, lui stesso ha elaborato. Verrebbe mai in mente a qualcuno di cambiare le parole d’una delle parabole evangeliche? Avrebbe alcun senso farlo?
Evidentemente no. E nessun senso avrebbe, trattandosi di sacre scritture, fare distinzioni, cogliere qualsivoglia sfumata discrepanza tra quanti da queste inalterabili verità s’allontanano. Il peccato di eresia non conosce distinguo. E per gli eretici, per chi nega la vera fede, comunque la neghi, non può esserci, senza differenziazioni di sorta, che un’unica condanna divina. Una condanna eterna. Tutti sono colpevoli, ha sentenziato Milei. Tutti, “si dicano apertamente comunisti, socialisti, socialdemocratici, democristiani, neokeynesiani, progressisti, populisti, nazionalisti o globalisti”. E tutti – si chiamino Pol Pot, Willy Brandt o Aldo Moro poco importa – devono finire tra le fiamme dell’inferno…
Parole troppo severe? No, perché in realtà Il Figlio dell’Uomo Milei – dopo un veemente, savonaroliano attacco contro femminismo e ambientalismo – ha concluso il suo sermone con una nota di luminosa speranza. Se Gesù era a suo tempo, pochi giorni prima d’esser crocifisso, entrato nel tempio di Gerusalemme per cacciare i mercanti, Milei è al contrario entrato nel Tempio di Davos per dire ai mercanti che a loro appartiene il Regno dei Cieli. “Voi – ha detto rivolto agli imprenditori presenti a Davos e a quelli dell’intero Universo – siete i veri benefattori sociali. Voi siete i veri eroi… e che nessuno osi dire che le vostre ambizioni sono immorali…”. Andate, arricchitevi e propagate nel mondo la Buona Novella…”.
Questo ha detto Milei a Davos. E le cronache riferiscono come, a tanto infervorati accenti, non abbiano fatto seguito che i molto tiepidi (imbarazzati?) applausi dei presenti. La morale? Nessuna. Perché – è bene ripeterlo – dopo quaranta giorni di governo a nessuno può esser negato il beneficio del dubbio. Certo è che, viste dal Tempio di Davos, le premesse della presidenza Milei non sembrano le migliori. Anzi: a ben vedere, neppure sembrano serie.